Il funerale dei morti di invidia

Onnis1

di Nicola Onnis

Il funerale romano cafone dei giorni scorsi con relativo festival di critiche e indignazione hanno fatto riaffiorare in me alcune vecchie riflessioni. In Italia il sistema ha ormai nettamente virato verso il socialismo reale con tuto il suo corredo di economia monopolistica di stato abilmente mischiata ad una economia fintamente privata, ma fatta piuttosto di rapporti stretti con lo stato stesso, fino ad assumere connotati oligarchici.

In questo contesto era abbastanza naturale che la teoria economica di riferimento dovesse essere quella secondo la quale sono i consumi degli individui a creare ricchezza e non la produzione dei beni stessi. A furia di investire i consumi di questo falso potere taumaturgico sull’ economia, l’italiano è stato via via abituato a giudicare gli individui per come spendono i loro soldi piuttosto che per come li guadagnano. L’Italia ha quindi trovato ancora una volta motivo per dividersi. Da una parte coloro che spendono elegantemente i loro soldi, che non cadono mai nella trappola dell’ostentazione e, che hanno fatto dell’understatement la loro religione. Questo atteggiamento coincide spesso con un benessere ben solido che resiste e si fortifica da generazioni. Dall’altra i cafoni parvenu, quelli che spesso, dopo una vita di sacrifici e privazioni, al godere di un improvviso benessere non riescono a combattere l’istintiva ricerca di appagamento conseguente l’acquisto e consumo di beni vistosi e in molti casi superflui. Vistosi, per dimostrare attraverso gli acquisti: ce l’ho fatta anche io, anche io valgo (status). Superflui perché il più delle volte dettati da mode fugaci come l’estate. Va da se che in molti casi la variabile che fa propendere verso l’uno o l’altro stile è anche il livello di cultura dei consumatori stessi. La capacità, per me troppe volte fallace, di ergere il proprio spirito al di sopra dei propri bisogni e tentazioni materiali. Quindi, come dicevo, si è divisa l’Italia. A quella cafona con la Ducati si contrappone quella a cavallo. Alla cabrio sportiva si contrappone il monovolume. Alla casa in periferia Miami Style con piscina e colonne in gesso si contrappone l’appartamentone in centro con gli arazzi alle pareti. Il motoscafo contro la barca a vela. In opposizione alla villetta al mare c’è il casale in Val di Chiana. Il ferragosto al Billionaire in antitesi alla prima alla Scala. Insomma due Italie, una silenziosa, riflessiva, elegante; l’altra chiassosa, istintiva e coatta. Ora, finché singoli individui valutano gli atteggiamenti di altri singoli, la libertà di criticarli è quanto mai legittima. Il problema nasce quando questo diventa unico parametro per giudicare il valore di una persona. Gli stessi attori dell’informazione, e non stiamo qui ad elencarne le debolezze e le colpe, tendono sempre più spesso ad enfatizzare le virtù di chi conduce una vita morigerata rispetto ad altri più estroversi. Si sorvola sul merito (fonte di reddito) perché in molti casi emergerebbe il viver parassita degli uni contro il viver faticoso dei secondi. Persino un giudizio importante come quello sui nostri amministratori è stato più volte basato dai media sulle tonalità di grigio del loro lifestyle. Craxi per esempio pagò molto l’essere frequentatore, anche se non assiduo, della Milano da bere godereccia. De Mita invece era altrettanto potente, ma è ancora oggi intervistato e ascoltato forse in virtù di quella sua vita semplice fatta di sfide pomeridiane a tresette ai tavolini dei bar nella piazzetta della sua Nusco con i coetanei pensionati. Non possiamo poi dimenticare il grigiore e la sobrietà che di Monti facevano un uomo serio, capace e incorruttibile. L’uomo giusto per ridare prestigio all’italietta berlusconiana fatta di barzellette sconce, nani e ballerine. La censura della cafonaggine ebbe un suo momento topico quando il bifolco leader del movimento di protesta dei forconi osò arrivare a bordo di una jaguar sul luogo della manifestazione. Lui, il contestatore era quindi un riccone, forse evadeva il fisco per pagarsi la jaguar, o peggio, pieno di debiti, ma con la jaguar. Che diritto aveva di scendere in piazza contro i politici tutti e rubare la scena ai ben più umili sindacalisti? Non serviva un giornalista di Quattroruote per scoprire che quella jaguar era forse bella, ma abbastanza datata, valeva poche migliaia di euro. Questa verità avrebbe sgonfiato uno scoop che tra l’altro non aveva neanche motivo di nascere. Il fatto non sussisteva. La jaguar non era neanche sua. Insomma una serie di mistificazioni e omissioni per pompare il disprezzo verso quel capopopolo senza licenza ne sigla sindacale alle spalle. Era invece encomiabile l’arrivare in parlamento dell’appena eletto presidente della repubblica con la Panda della figlia. Poco importa se in panda arrivasse un accumulatore seriale di pensioni e vitalizi di lusso. Era importante non provocare l’ormai diffuso sentimento d’invidia nel popolino salariato che dovrebbe definitivamente, a mio parere, imparare a godere delle proprie fortune piuttosto che delle sfortune altrui. L’Italia corre veloce verso l’omologazione, verso quella eguaglianza fatta di una fiat panda per tutti, ricchi e poveri, parassiti e lavoratori autentici. Il faraonico funerale del boss è il corto circuito. A Roma ha gestito quella che viene chiamata microcriminalità. Lo ha fatto indisturbato per decenni, ha frequentato politici e fatto affari con loro, ma nessuno si è indignato fino a quando non è morto. Il suo funerale pacchiano, cafone, quasi blasfemo, ha rotto il patto di sobrietà non scritto con il mondo politico. Ha messo a disagio le istituzioni e la stampa “distratta”. Fu quindi un errore madornale, farsi un funerale che lo stato non potrà mai garantire a nessun cassintegrato.

 

 

 

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