di Roberto Bolzan
Più di tutti detestiamo i film che citano per nobilitarsi, ed ecco che per dovere ci tocca vedere un film che inizia citando Celine, forse non capendo quanto incauto sia citare l’autore che forse più di tutti è la lingua moderna, ma francese, e il viaggio entro l’uomo notturno. Scrittore irriducibile al cinema.
Ma siamo grati al Dito che ci costringe anche a vedere cose che altrimenti declineremmo senza dubbio e ci dà l’occasione per esercizi intellettuali inconsueti ma interessanti.
Lasciamo stare Celine, quindi, ed anche le menosissime citazioni sparse sistematicamente nel corso del lungo tour de force con la Roma stereotipata narrata nelle due ore e mezza, tanto dura la versione originale.
Tutta la storia ruota attorno a Jep Gambardella, giornalista di costume, critico teatrale, opinionista tuttologo, che compie sessantacinque anni organizzando feste e ricevimenti in una Roma con vista sul Colosseo. Jep nelle intenzioni dovrebbe rappresentare il cantore di una società senza speranza, al centro di un bestiario umano annegato nella noia e nobilitato dal disincanto.
Il risultato è terribile. I personaggi sono stereotipati, i dialoghi, scelti con cura per fare effetto, declamano l’ovvio e snervano lo spettatore che abbia il minimo di malizia, le immagini, scelte per impressionare, impaginano un catalogo della Roma papalina splendido si, ma rovinato dall’intenzionalità che vorrebbe fare gridare alla meraviglia, mentre è solo bella e onesta fotografia, niente miracoli. E nemmeno fare recitare gli attori è nelle corde di questo film, ché perfino Verdone risulta impacciato e artefatto e Toni Servillo dev’essere aiutato dalla voce fuori campo a causa di mancanza di mobilità facciale. Onore invece, a proposito e tra parentesi, e Sabrina Ferrilli che non mostra solo un corpo sodo ma, in qualche modo, si fa valere per spezzare con naturalezza la fissità delle situazioni. E’ lei, non recita.
La tristezza del risultato è pari alla modestia dell’ambizione di questo film, che è rifare La dolce vita più o meno tale e quale, ma migliore. Ora, la Dolce vita è film del ’60, invedibile oggi per completa obsolescenza, tipica opera valida per una sola stagione. Di rifarlo 53 anni dopo, non pareva ci fosse il bisogno.
Uno dei piaceri della critica è stroncare senza pietà, ma quando l’opera si stronca da sé, che gusto c’è nell’infierire? piuttosto meglio cercare quel che c’è di buono anche nel peggiore dei tormenti e, miracolosamente, l’abbiamo trovato.
Perché Sorrentino ci ha richiamato i film di Greenaway, e questo è bello. Non Celine, non Fellini sono la chiave del film, ma i fermo immagine di Greenaway: le mele ricoperte di muffe multicolori ed i cadaveri di zebre gonfi di gas sul punto di esplodere, immagini dello Zoo di Venere, o l’erotismo panzuto e sazio del Ventre dell’architetto, o la pittura classica del Cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante. Tutte opere che abbiamo venerato all’epoca nella quale amavamo l’inconsistenza ed il nulla. Sorrentino ci regala questi scorci di pari nulla, la stessa vacua inconsistenza, il cicaleccio inutile delle immagini. Si fosse limitato a questo, senza citazioni, il film sarebbe stato magnifico.