SCIACK! IL DITO NELL’OCCHIO AL CINEMA. “Il primo re” di Matteo Rovere (2018)

di Roberto Bolzan


La lingua italiana non ha avuto chi la portasse nella modernità. Non ha avuto il suo Celine a renderla moderna e viva. La letteratura italiana, quella del dopoguerra, è antica, desueta. Gli ingegnerismi di Gadda, i Gozzano e perfino gli sperimentalismi di Piovene, così come gli altri, parlano ancora con la lingua del voi.
L’italiano moderno attende il suo Alighieri ma invano, credo. La storia d’Italia è cantonale, meglio ancora comunale e sono le mille sfumature del dialetto ad essere veramente lingua. Nella lingua parlata certamente no ma la letteratura precede sempre e dona la visione dei tempi che verranno.

Tant’è che, nel bene e nel molto male, finiti gli anni eroici, il cinema italiano è ugualmente rimasto vivo grazie alla parlata dialettale, e solo negli accenti regionali e locali si esprime veramente.
L’italiano del cinema è bisbigliato, intensificato nel significato e nel significante, dialoghi da tesi di laurea, personaggi di un tempo borghese ormai andato o macchiette comiche.

Il colpo di genio di Rovere è di usare il latino. Il protolatino bisbigliato ha un effetto totalmente diverso dall’equivalente in italiano e nasconde gli effetti di una recitazione scolastica ed inadatta. La rende invece interessante, soprattutto per chi volesse richiamare qualche eco del liceo..

La storia, Romolo e Remo che combattono contro gli Albani e fondano Roma con il sacrificio di sangue richiesto dagli dei, è bellissima. Il mito è rappresentato senza sussiego, la storia sacra che si fa nella carne e nel sangue degli uomini.
Poi Rovere ha intelligenza e sa come mettere la dose giusta di sangue e raccapriccio. Il contesto igienico-sanitario è desolante, gli attori spettinati e barbuti hanno il fisico. Luci, costumi e scenografia non deludono, anzi.

Il film dura due ore. Passano veloci e piacevoli.

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