di Roberto Bolzan
A volte di un film basta la trama.
Giuseppe Di Noi, da anni trasferitosi in Svezia e sposato con una svedese, stimato professionista, decide di portare in vacanza in Italia la sua famiglia.
Alla frontiera italiana l’uomo viene arrestato senza che gli venga fornita alcuna spiegazione. Dopo tre giorni di carcere a Milano, apprende di essere accusato di “omicidio colposo preterintenzionale” di un cittadino tedesco. Convinto che si tratti di un equivoco, il malcapitato viene tradotto di carcere in carcere, fino alla località immaginaria di Sagunto ed internato in una cella di isolamento, in quanto, essendo considerato “latitante”, gli viene impedito di usufruire degli arresti domiciliari.
Di Noi subisce un autentico calvario giudiziario, costellato di trattamenti umilianti e spersonalizzanti. L’incubo si protrae per molti giorni; il magistrato inquirente lo rimprovera di non poterlo ascoltare in quanto privo di un avvocato. L’uomo si trova, suo malgrado, coinvolto in una sommossa e trasferito dapprima in un carcere per reclusi ergastolani, dove scampa a stento ad una violenza, e poi in una struttura psichiatrica.
Solo l’ostinazione della moglie e l’intervento del console riescono ad ottenere l’interessamento del magistrato che, alla fine, interviene per rimediare all’errore.
Di Noi apprende quindi che il viadotto di una superstrada costruita anni prima da una ditta dove lavorava come geometra era crollato per cause poi ritenute naturali, causando la morte di un automobilista tedesco in transito. Di Noi, trasferitosi nel frattempo in Svezia e senza alcuna comunicazione internazionale, non rispondendo al mandato di comparizione, era tecnicamente ritenuto latitante e da ciò l’arresto.
Chiarita la sua posizione Di Noi riacquista la libertà, ma è un uomo segnato, fisicamente e psicologicamente.
Di nuovo libero, arrivato di nuovo al confine italiano, un carabiniere ferma l’auto e gli chiede i documenti e poi gli chiede di seguirlo per espletare “una pura formalità”, ma Di Noi, terrorizzato, scende dall’auto e inizia a correre inseguito dai militari, fino a che non viene colpito a morte da una sventagliata di mitra.
E’, fortunatamente, un incubo ad occhi aperti: il carabiniere gli porge di nuovo i documenti e il geometra si ridesta dal suo sogno e senza dire una parola prosegue il suo viaggio fino ad uscire dal confine italiano.
Il film-denuncia di Nanni Loy uscì nelle sale suscitando scalpore, poiché per la prima volta un’opera cinematografica denunciava senza mezzi termini l’arretratezza e la drammatica inadeguatezza dei sistemi giudiziario e carcerario italiani.
Girato con semplicità, in modo diretto e di splendida efficacia anche per la grande arte di Alberto Sordi, in un inconsueto ruolo drammatico, il film è attuale come non mai anche a quasi 50 anni di distanza; non è l’unico, dei film che raccontano le vicende giudiziarie italiane. Lo stesso anno, per esempio, esce In nome del popolo italiano di Dino Risi. L’anno prima era uscito Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri.
Visto oggi, stentiamo a credere ad una sola cosa: al magistrato che, sia pure per convenienza, si ravvede e rimette in libertà con tante scuse il malcapitato. Oggi non succederebbe così. Ma all’alba degli anni Settanta i magistrati non erano ancora diventati i Buoni.