SCIACK! IL DITO NELL’OCCHIO AL CINEMA. “Sully” di Clint Eastwood (2016)

di Roberto Bolzansully

“Il 15 gennaio del 2009, più di 1.200 membri delle squadre di primo intervento e 7 traghetti che trasportano 130 pendolari, hanno tratto in salvo i passeggeri e l’equipaggio del volo 1549. New York ha messo in campo il suo meglio. In soli 24 minuti”

Patriottismo asciutto ed una storia lineare. Questo dicembre ci regala molte occasioni per andare al cinema, evitandoci quindi la visione dei cinepanettoni, che sono d’altra parte scaduti di qualità. Non possiamo che rallegrarcene.

Nel 2009 un volo di linea appena decollato viene colpito da uno stormo di uccelli che provoca l’avaria di entrambi i motori. Il capitano Chesley “Sully” Sullenberger, pilota con un’esperienza di quarant’anni, decide di scendere sull’Hudson, tra i grattacieli di Manhattan, portando in salvo tutti i 155 passeggeri a bordo e gli assistenti di volo. Subito navi, traghetti, elicotteri e mezzi di soccorso recuperano tutte le persone e consentono il miracolo: nessuna vittima. Ultimo a uscire dall’aereo che stava iniziando ad affondare, Sullenberger viene subito salutato come un eroe.

La storia sulla quale il film si concentra è quella meno nota dei giorni di inchiesta a cui fu sottoposto Sullenberger, insieme al suo primo ufficiale, per verificare se la sua scelta fu la migliore o, invece, un rischio azzardato che si sarebbe potuto evitare atterrando in un altro aeroporto di zona, o tornando indietro al La Guardia.
Il dubbio prende anche il comandante, che però rivendica e dimostra come la sua fosse l’unica soluzione valida, presa d’istinto nei pochi istanti disponibili.
L’intera azione dura 208 secondi, dal momento dello spegnimento dei motori al momento dell’ammaraggio sul fiume. In questo tempo incredibilmente breve si concentrano l’esperienza di una vita professionale, l’intelligenza e la prontezza di riflessi di un uomo che ha l’ambizione e l’orgoglio di fare al meglio il suo lavoro e rispondere alla responsabilità della vita dei suoi passeggeri.

Clint Eastwood è sempre più il vero erede di John Ford (“my name is John Ford, I make movies”), sempre più narratore di storie, di uomini e delle loro storie. Rifiutate la furia di Peckinpah e la maniera seppure alta di Leone, preferisce un cinema classico e basato su sceneggiature solide, con il vantaggio non da poco di poterle scegliere. E qui dò il meglio e produce film inattaccabili, robusti e resistenti.
Qui racconta di quel magico momento in cui si concentra la vita di un uomo e l’istinto guida la decisione: può essere fatale o può essere la salvezza, ma non c’è il tempo per saperlo, solo quello di tirare i dadi e cercare di farlo al meglio.
Benché il film sia narrativamente un continuo flashback, benché la storia venga subito rivelata e poi rivista diverse volte, prima nella memoria del protagonista e poi nelle simulazioni che vengono fatte per verificare le alternative, la storia appare lineare e semplice, piana e senza sorprese. Il protagonista, bene interpretato da Tom Hanks (meno valida la scelta di Aaron Eckhart nei panni del copilota, bravo ma incongruo con il personaggio), è un uomo comune che, insieme ad altri, risolve una situazione eccezionale, mai verificatasi prima, e poi torna alla sua vita. Non è un eroe, non vuole esserlo, non si sente tale, piano e lineare in accordo perfetto con lo stile della narrazione.

Bravura nella sceneggiatura, bravura nel montaggio, attenzione a togliere ogni elemento inutile, concentrazione sull’essenziale. Il film dura solamente un’ora e mezza: inizia, racconta la sua storia e quando ha terminato quello che aveva da dire, finisce. È così che dovrebbe sempre essere il cinema.

 

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