di Roberto Bolzan
Che dire.
Film borgataro, vagamente postneorealista alla Pasolini. Narra la miseria morale e materiale di Tor Bella Monaca attraverso le avventure di un gruppo di aspiranti rapinatori e dell’umanità squallida che ci gira intorno.
Siamo sempre stati respinti dal cinema italiano contemporaneo ma questa volta per dovere di cronaca ci siamo dovuti impegnare. E poi la nostra critica di riferimento, quella che scrive per il Foglio, ci aveva favorevolmente disposto… Ma siamo stati imbrogliati.
Innanzitutto perché ci hanno raccontato che il film è stato interamente finanziato con capitali privati, mentre l’inizio della pellicola riporta la lista di contributi ricevuti. Capitali privati, quindi, ma i nostri! presi a forza dalle nostre tasche per essere dati secondo il discernimento di una commissione. Poco avveduto, come vedremo. Può essere che i contributi pubblici (che equivale a soldi privati estorti con la forza dalle nostre tasche, è sempre bene rimarcarlo), siano modesti sull’importo totale. In tal caso sarebbe stato buon gusto e avvedutezza indicarlo chiaramente e questo avrebbe diminuito il nostro disappunto.
Poi, secondo imbroglio, perché ci avevano raccontato che si trattava di un film di alabarde spaziali. Noi, scettici sull’ambientare gli ufo robot nella città eterna, siamo tuttavia andati curiosi e bendisposti a vedere, e mal ce ne incolse perché di alabarde spaziali c’è poco. Per meglio dire, ce stanno l’arabardde spazziali ma in scene talmente incongrue che fanno solo pena.
Mi spiego meglio: dopo due ore di neorealismo, sia pure a colori, improvvisamente due minuti di scene dove i due si picchiano demolendo muri, arricciando l’asfalto con i piedi e lanciando bidè come proiettili. Poi, come nulla fosse, ricomincia l’amatriciana. E noi con una siepe di punti interrogativi sulla testa.
La storia è stata sintetizzata sopra. I rapinatori si massacrano fra di loro, in una lotta fra bande romane e campane, il nostro eroe riesce a limitare i danni ma non a salvare la bella e verso la fine del film esce dallo stato autistico in cui la vita e la miseria l’hanno relegato ed inizia a salvare bambini in pericolo e restituirli alla mamma piangente. Si capisce che farà qualcos’altro per l’umanità ma senza strafare: semo pur sempre de Tor Bella Monaca, territorio der municipio de Roma, famose a capì.
Gli attori: sappiamo che sono dei professionisti ma sembrano veramente degli attori di strada, e l’unica speranza è stata di farli recitare in romanesco (o in napoletano, quelli della banda rivale). E’ assodato ormai da decenni che il dialetto è una risorsa quando non c’è altro da valorizzare. Come il colore in architettura. Pitturate i muri di colori vivaci e qualcosa otterrete: se va bene Burano, quando, più solitamente, va male le unité d’habitation di Marsiglia o gli alloggi dell’opera universitaria in zona via Rimesse a Bologna.
Claudio Santamaria viene dalla suola di Harrison Ford: una sola espressione per tutta la carriera, solo che qui l’allievo supera il maestro, nel senso che l’espressione è nulla.
Ilenia Pastorelli ha il vantaggio di essere procace e bella ma spesso non riesce a nascondere il riso mentre recita. Il budget limitato ha evidentemente impedito di girare di nuovo le battute.
Luca Marinelli interpreta un personaggio al quale siamo molto affezionati: lo Zanardi di Pazienza, discolo, crudele e viziato. E’ l’attore migliore del film, canta e balla, cosa non da poco.
La sceneggiatura: due o tre spunti interessanti – uno per tutti lo Zingaro/Zanardi che acquisisce i superpoteri e, con il volto completamente deturpato dal lanciafiamme, si trucca e si trasforma in supereroe – arrivano troppo presto o troppo tardi e non sono sfruttati come meritano. Il risultato è che una storia potenzialmente interessante, doppiata la metà del film porta a guardare l’orologio ed a pensare alle scuse per la consorte che abbiamo obbligato a venire (pagandole il biglietto, ovvio, senza speranza del rimborso spese).
La regia: nonostante tutto Gabriele Mainetti pare avere appreso la grammatica del cinema. Le storie sono narrate con la cinepresa e non spiegate a forza di dialoghi artificiosi. Ci sa fare.
Ci fossero attori capaci di recitare, sceneggiatori e scrittori all’altezza e produttori con un po’ di coraggio forse il cinema italiano potrebbe iniziare a mettersi alle spalle una stagione cupa. Non nutriamo molte speranze.