di Roberto Bolzan
De Niro, tutto intabarrato ed irriconoscibile con un paio di folti baffi, entra nella casa del protagonista per riparargli illegalmente l’impianto di riscaldamento centralizzato. Non vuole essere pagato perché la sua è una missione, quella di libero professionista sovversivo, esercitata contro una società completamente burocratizzata e asservita al controllo totale di una casta di tecnocrati. Morirà, alla fine, inglobato in un mostruoso turbine di moduli che gli appiccicheranno addosso fino ad annichilirlo.
Terry Gilliam, unico americano del gruppo dei Monty Python, gira il suo capolavoro visionario e onirico nel 1985, un anno dopo il fatidico 1984, ma sembra passato un secolo dall’anno in cui è collocata la distopia di Orwell: non c’è più bisogno, infatti, di spiegare il mondo nuovo, tanto è chiara a tutti la potenza del dominio che si sta dispiegando sulla società. Il mondo nuovo non ha bisogno di essere imposto, è già dentro di noi, tanto che ci si più permettere l’ironia ed il grottesco ed i tocchi personali e delicati dell’amore e del sogno.
La trama, d’altra parte, è proprio il sogno, avvitato in più volute dentro sé stesso, al punto che non si capisce mai se Sam (interpretato da uno smagliante Jonathan Pryce) sta sognando o è il sogno che sta prendendo il sopravvento, se è il sogno che diventa incubo o l’incubo che sogna il volo nelle nuvole e l’amore.
Tutto nasce quando una mosca morta produce un errore nella stampa di un nome: invece del sig Buttle viene catturato, e subito condannato e giustiziato, il sig Tuttle. L’affannoso scaricabarile con il quale gli uffici cercano di liberarsi della responsabilità dell’errore provoca una serie di reazioni a catena che sembrano mettere in difficoltà alcuni funzionari, con le conseguenze catastrofiche che ne derivano. E’ del tutto escluso che il sistema sia messo in crisi, però. Non c’è fuga dal sistema se non nel sogno e per un brevissimo poetico istante d’amore, dal quale veniamo subito richiamati alla tragica realtà.
La messa in scena è sensoriale al massimo, con una corposità che mai si è più vista al cinema. L’ambientazione gioca magistralmente a creare un cortocircuito tra un futurismo barocco e abiti classici e retrò anni ’60, in una miscela che ricorda Arancia meccanica ma con più disinvoltura e potenza. A fronte della visionarietà totale dell’immagine, i dialoghi sono serratissimi e privi di sbavature e tengono lo spettatore con i piedi per terra, libero di sognare. Terry Gillian, in questo film, possiede completamente l’arte e con estrema totale sicurezza sforna un film senza compromessi sulle potenzialità visive e narrative del cinema.
Una scena con una scalinata, un aspirapolvere che sobbalza scendendo i gradini ed un occhialino infranto da un colpo di fucile, le fila di soldati che scendono con passo cadenzato sparando disciplinati, dichiara scopertamente a quale mondo Gillian si ispirasse. Quattro anni dopo cadeva il Muro. Trentun anni dopo ci troviamo a pensare ad allora come ad un periodo di libertà.