SCIACK! IL DITO NELL’OCCHIO AL CINEMA. “Andrej Rublëv” di Andrej Tarkovskij (1966)

di Roberto Bolzan

Aiutiamo Andrea Babini nella creazione della sua opera (97 capitoli sul medioevo, non una cosetta) iniziando a presentare di tanto in tanto delle pellicole storiche. La prima non può che essere questa, che amiamo molto.

Andreij Rublëv è un’epopea che abbraccia 23 anni di storia della Rus’, a partire dall’anno 1400, attraverso le gesta del più grande pittore di icone della storia russa.

Per i russi corrisponde al periodo del basso medioevo mentre in occidente mancano solo pochi anni alla scoperta dell’America.
Ma nemmeno per i russi è notte fonda; ancora divisi in principati fratricidi e azzannati a ondate intermittenti dalle orde mongole, la futura Russia ha già sviluppata le tre colonne che la terranno in piedi fino alla rivoluzione d’ottobre: popolo unito, aristocrazia e ortodossia. Manca solo lo zar, che arriverà un secolo e mezzo doo.

Il percorso artistico e religioso di Rublëv si muove quindi nel grande travaglio della Russia medievale. L’arte, la fede, il peccato, la giustizia, il bene e il male sono le grandi questioni che tormentano il monaco; gli aristocratici, i tartari, la fame e la peste le piaghe del popolo russo.

Lontano da intenti di realismo storico, Andrej Rublëv intesse una visione dell’arte come dono inspiegabile e scommessa con il destino che contrasta con l’indole razionale dell’uomo e con la sua incapacità di accettarsi. Andrej Rublëv è l’artista della modernità, colui che traghetta la pittura dal formalismo bizantino ad un’umanizzazione vicina a quella degli artisti rinascimentali.

Il film è composto di otto capitoli, un prologo e un epilogo. I capitoli costituiscono una trinità nella quale Andrej Rublëv è dapprima assente anche se continuamente nominato; nella seconda parte assume un ruolo centrale, la storia gira interamente attorno a lui, ai suoi pensieri e ai suoi turbamenti; alla fine ne rimangono solo le idee e le riflessioni, che lo spettatore può solo intuire. L’epilogo, unica parte a colori, mostra le sue icone, quel che ci è rimasto della sua arte.

Lentissimo e di durata smisurata (tre ore) il film incanta grazie al talento visivo del regista e per la sua purezza distillata per sottrazione. Tarkovskij non aggiunge nulla, semmai semplifica, Tarkovskij è assente, è spettatore insieme a noi di una storia corale che comprende il lavoro dell’uomo, la sua fatica, la violenza e la desolazione della guerra, l’amore, l’arte esercitata con pazienza e assecondando la dinamica delle cose. Il tempo si dipana lentamente ma inesorabilmente fino all’estrema vecchiezza quando finalmente Andrej Rublëv deciderà di dipingere il mistero della Trinità.
Il bianco e nero mette tutto sullo stesso piano, il sudore e la polvere uguali al sangue, l’azione dell’uomo, paziente, e la pazienza delle cose sempre in attesa di essere forgiate in qualcos’altro, il tempo e la storia.
Da tutto questo, nel lento girare della ruota, nasce naturale sebbene con fatica e tormento l’arte delle icone, qualcosa che supera il tempo ed i secoli per giungere fino a noi ancora intatto.

 

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