di Roberto Bolzan
Il Qoelet o Ecclesiaste è un testo contenuto nella Bibbia ebraica e cristiana.
È scritto in ebraico e la sua redazione è avvenuta in Giudea nel IV o III secolo a.C. ad opera di un autore ignoto che scrive sotto dettatura del Re Salomone. E’ composto di 12 capitoli contenenti varie meditazioni sapienziali sulla vita, molte delle quali caratterizzate da un tenore pessimistico.
Nel Qoelet viene esposto, in forma dialettica, un contraddittorio tra il bene e il male. La riflessione ruota intorno a due interrogativi, ovvero a cosa serva fare il bene e a cosa serva fare il male. Se la morte è l’unica conclusione della vita, allora tutto sembra vano. Qoelet allora suggerisce: “Abbi fiducia nel Padre e segui le sue indicazioni”. È qui che si legge la famosa frase Vanitas vanitatum (vanità delle vanità), significando che tutto non è altro che cosa vana, fatua.
Ci occupiamo per la seconda volta di Terry Gilliam e gli facciamo onore per la grandezza che riconosciamo a Brazil. Non possiamo quindi passare sotto silenzio la sua opera più recente, termine e conclusione della trilogia che, con L’esercito delle 12 scimmie, si propone di mandare un messaggio al mondo tutto. E, per essere sicuro di essere seguito con la necessaria compunzione, inizia con il chiamare il protagonista Qohen Leth, lasciando a noi il piacere di cogliere l’assonanza.
Qohen (Christoph Waltz) è uno degli sviluppatori più produttivi della Mancom ma si è alienato sempre più dal mondo esterno, in attesa di una telefonata che gli sveli il senso della vita. Finalmente il misterioso Management (Matt Daemon), capo della corporation, accetta di parlare con Qohen, affidandogli la risoluzione dello Zero Theorem, un algoritmo impossibile sull’assurdità dell’esistente. In cambio potrà lavorare da casa, una chiesa sconsacrata piena di oggetti e vestigia di un’altra epoca. Incontra incontra Bainsley (Mélanie Thierry) e divide con lei romantici appuntamenti in mari e spiagge con eterno tramonto. E afflitto dalla presenza di Bob, figlio del suodatore di lavoro, che gli sistema il computer che lui rompe a martellate.
Alla fine non succede niente. Ogni tentativo di distogliere Qohen dal vuoto che lo divora è inutile, non resta altro da fare che arrendersi al buco nero che ci viene mostrato fin dall’inizio del film e buonanotte.
Siccome non facciamo sconti a nessuno, dobbiamo dire le cose come stanno. Il genio dipende da una combinazione di cose che si combinano per creare il capolavoro. Non è replicabile e non è pianificabile. Fate credere ad un autore di essere un genio e lui comincerà subito ad emettere messaggi subliminali ed a pretendere di essere preso estremamente sul serio.
Il problema di Terry Gilliam è di avere una buona sceneggiatura e dei dialoghi scritti da un professionista che gli consentano l’anarchia su tutto il resto, di sbizzarrirsi ed inventare senza preoccuparsi della verosimiglianza. Allora, come in Brazil, avviene dil capolavoro.
Qui abbiamo del cinema di qualità, Gilliam è certo capace di tenere la camera e di arrivare al termine delle due ore, ma pestando l’acqua nel mortaio e annoiando.
Poi l’arredamento apocalittico (che Terry Gilliam sa fare – è la cosa più interessante del film) è datato, i calcoli per risolvere l’equazione fondamentale potevano meravigliare una generazione fa, il monitor preso a martellate fa sbadigliare, le telecamere di sorveglianza sono su tutti i telegiornali. Il tempo passa, la distopia diviene realtà e, meraviglia, va avanti verso qualcosa di nuovo.
Uscito alla mostra di Venezia del 2013, l’aspettavamo con curiosità ma abbiamo fatto fatica ad arrivare alla fine nonostante l’aria condizionata in una serata di metà luglio bollente.