SCIACK! IL DITO NELL’OCCHIO AL CINEMA. “Frankenstein junior” di Mel Brooks (1974) con Gene Wilder

di Roberto BolzanUnknown

Quale compito ingrato parlare di film che tutti conoscono! e pazienza se se ne può parlare male; ma quando se ne deve parlare bene è una pena. Poco gusto, vi assicuro.

Qui poi parliamo di un amore assoluto a prima vista, senza rimedio, e allora andiamo a raccontare la storia, già con il sorriso che ci sfiora il labbro.

Anni ’30. Bianco e nero. Il professor Frederick Frankenstein (non si può pronunciarlo che ‘Frankenstin’) esperto di neurologia e nipote di un famoso luminare riceve una visita da parte di un notaio che gli comunica che il nonno barone gli ha lasciato un castello in Transilvania.
Frederick va in Romania dove incontra l’aiutante gobbo Igor (‘Aigor’), nipote del vecchio assistente del nonno, la bella assistente Inga e la sinistra Frau Blücher (‘nitrito spaventato dei cavalli della stalla’). Trovati gli appunti del nonno Frederick cerca di riprodurne gli esperimenti e di dare vita a una creatura.
Igor viene mandato in un laboratorio per procurare il cervello di Hans Delbruck, un grande scienziato ma, dopo aver combinato un disastro, è costretto a prendere quello di un altro, etichettato ‘ABNormal’.
Data vita al nuovo essere iniziano le peripezie: il mostro fugge dal castello, incontra una bambina e poi un eremita cieco che gli dà fuoco al pollice. Alla fine si riduce ad esibizioni teatrali di tip tap.  Anche qui un incidente con il fuoco lo fa scappare; catturato, viene rinchiuso in una cella. Da qui fugge nuovamente, rapisce Elizabeth, la fidanzata di Frederick appena arrivata in Transilvania, e la possiede, con grande piacere di questa si capisce.
Infine Frederick trasferisce parte della sua intelligenza alla creatura, ammansendola. Alla fine Elizabeth è felice con la creatura, che è diventata una persona di gusti raffinati e delicati, mentre Inga si gode lo Schwanstucker passato a Frederick durante il trasferimento.

Succede che si abbiano dei figli e che finché sono piccoli si possano vedere insieme Tom e Jerry e Gatto Silvestro. Più grandi si approfitta delle puntate storiche di Zac & Cody per raccontare di Boston e dello sciopero dei Tea parties, ed ancora funziona. Poi ci si trova a subire le serie televisive che ingombrano il decoder; i gusti si separano e non c’è più niente da dirsi.
Ma ogni tanto ci si trova a ridere sullo stesso film, ed è un miracolo che sana. Sono certo che i miei nipoti, quando ci saranno, ed i pronipoti tutti ripeteranno per sempre le battute di Mezzogiorno e mezzo di fuoco (‘Ripetete con me: io, il vostro nome’ – e la folla ripete ‘io, il vostro nome’…) e nitriranno a sentire il nome di Frau Blücher e diranno ABnormal tutte le volte che possono.
Questo c’è, che qualifica i capolavori; che scavalcano le generazioni senza la minima ruga, e così diventano eterni.

Il film non sarebbe mai esistito senza Gene Wilder, che ha insistito per anni con Mel Brooks. per farlo, scrivendone anche la sceneggiatura. In questi giorni se n’è andato e da qui, dalla Terra, lo salutiamo con riconoscenza ed un sorriso.

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