SCIACK! IL DITO NELL’OCCHIO AL CINEMA. “Blade Runner” di Ridley Scott (1982)

di Roberto Bolzan

Avremmo nuovamente dovuto parlare di un film italiano ma violiamo le disposizioni ministeriali per parlare di un vecchio film d’importazione estera che fa bellamente il paio con quello della scorsa settimana, e non solo perché quello ne è il seguito.

Blade Runners (1982) tentò, con esito malcerto, di unire il genere poliziesco alla fantascienza, cosa che è noto non debba essere fatta. E infatti…

Ma ripassiamo la vicenda, Nella Los Angeles del futuro, Deckard è un cacciatore di replicanti. Vorrebbe ritirarsi dal suo lavoro per la Blade runner, ma gli affidano un ultimo compito, quattro modelli nexus-6 fuggiti dalle colonie spaziali e arrivati sulla Terra, con pochi giorni di vita rimasti prima della loro scadenza, che scatta dopo quattro anni di esistenza. Deckard sa riconoscere i replicanti grazie al test Voight-Kampff, che valuta le reazioni emotive di fronte a domande provocatorie, e il loro creatore, il capo della Tyrell Corp, lo mette alla prova con una replicante speciale, che non sa di esserlo, Rachel. Lei, sconvolta dalla verità, cercherà Deckard che decide di proteggerla e non “ritirarla” perché sogna che al termine della sua missione potrà vivere in pace con lei. In seguito Roy Batty uccide sia il dott. Tyrell, il suo creatore, sia J. F. Sebastian. Alla fine Deckard viene attaccato da Pris, ma riesce a ritirarla sparandole, e da Roy Batty che, invece di ucciderlo, lo trae in salvo nei suoi ultimi istanti di vita. Nelle ultime scene Deckard e Rachael fuggono insieme e s’intuisce la natura replicante di lui.

Diciamo che il film inizia bene e, con l’apertura che mostra le cartacce e la polvere sopra la cabina, ci allunghiamo sulla poltrona pronti a ricrederci sulla memoria e gustarci un poliziesco come si deve, della più pura hard boiled. Ma il suggerimento, come tanti altri, non ha seguito e Scott non ha idea di cosa sia un poliziesco, così si limita a scimmiottarne i personaggi tipici (l’ispettore, il suo assistente incarognito) e le situazioni (la stazione di polizia, il ritiro della pistola e del distintivo) ma svogliatamente. Poi lascia perdere.

Scott all’epoca sapeva fare una cosa, filmini pubblicitari, e dopo il successo delle atmosfere flou di Alien qui rilancia e quel che va bene per le merendine, normalmente sufficiente per una scena o due, qui si dilata a tutto il film. Pensate se Curtiz avesse ambientato tutto Casablanca all’aeroporto nella nebbia.

Di un’altra cosa Scott abusa: dei fari, di cui chiaramente aveva abbondanza.  L’idea è buona, vedasi Metropolis, ma mentre nel cinema tedesco la luce diretta porta l’emozione, è il film, è cruda espressione drammatica, qui è la trovatina proposta interno o esterno, non importa, non c’è scena del film che non abbia la sua sciabolata di luce ed il suo occhio di bue a tagliare la scena. Il troppo stroppia e molto prima della fine siamo inginocchiati e prostrati dall’ennesimo vaporino che esce dal millesimo bricco nel quale sobbolle l’onnipresente zuppa, di cane immaginiamo.

Ma parliamo degli attori: Rutger Hauer (Roy Batty) è stato scelto perché alto e albino (ci sta), Sean Youngc (Rachael) per motivi imperscrutabili tra i quali la fissità facciale, Harrison Ford non può che essere stato un ripiego, dato che la sua unica espressione, il sorriso sardonico, mal c’azzecca con il genere. Come in tutti i film mediocri, sono le seconde file a funzionare e quindi gli splendidi comprimari, tra i quali un umanissimo Brion James (Leon) con il quale si apre la narrazione  E poi naturalmente tutto il caravanserraglio di personaggi da bar interstellare che popolano la storia.

Curiosamente, come il suo successore anche il primo Blade Runner riserva le sue parti più umane all’inizio. Qui l’interrogatorio di Leon, lì il replicante colono.  Poi basta,  i replicanti hanno sentimenti bambini che non consentono alcuna costruzione psicologica, così come nell’affastellamento di corpi asiatici  è impossibile trovare se non un’umanità spicciola, di nessun valore narrativo, di nessuno spessore psicologico. Pura ambientazione

Cosa c’è di bello nel film? Come nell’ultimo, le scenografie, che prendono da Metal hurlant (e fanno bene), l’ambientazione postapocalittica che sarà lo standard per decenni, insieme però alle famigerate nebbioline e il flou che ci hanno perseguitato per tutti gli anni ’80.

Concludiamo osservando che proprio coloro che vanno in deliquio per l’atmosfera multiculturale di Ridley Scott sono poi gli stessi pronti a strillare per ogni barcone che approda sulle nostre coste. Strana schizofrenia

 

Questo articolo ha 2 commenti.

  1. Secondo me manca qualcosa in questa recensione.
    Le componenti che hanno caratterizzato l’unicità emotiva di questo film sono a mio avviso tre. Il sottofondo acustico, rumoristico e/o musicale, il monologo di buon spessore di Rutger Hauer (l’ha scritto lui) alla morte del suo personaggio, ed il finale a sorpresa. Che induce anche riflettere sia sul proseguio che su metafore esistenzialiste all’uscita dal cinema.
    Daltronde acustica, testi e finale sono capisaldi fondamentali di un buon film. Mica c’è solo la “fotografia”.
    Ultimo dettaglio: il viso di Sean Young in “Senza via di scampo” ed in “Cocaine” ha tutto tranne la “fissità”.
    Comunque, anche se un ottimo film dell genere “cyber punk”, può darsi che il film sia stato troppo osannato.
    Colpa della citazione continua del monologo di Rutger Hauer.

    1. Si, forse colpa della citazione. D’altra parte, tolto quella, cos’altro resta da citare?
      Sulle musiche e sul sonoro, d’accordo

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