LIBERALISMO ED ECONOMIA: IL GRANDE EQUIVOCO
Diversamente dalla convinzione di molti, il liberalismo non si occupa di economia.
La definizione di economia è infatti quella branca di studio che si occupa della ricchezza di un paese. In pratica, il titolo di quel voluminoso saggio di Adam Smith (Sulla ricchezza delle nazioni) che per questo è stato definito il padre di questa disciplina.
Ma diversamente dal socialismo, che fonda la propria dottrina su una teoria economica, o dal nazionalismo che comunque ricerca il massimo vantaggio anche economico (ed autarchico!) per una nazione, il liberalismo prescinde da tutto ciò e si occupa essenzialmente di diritto. Un diritto individuale inalienabile, su cui non possono prevalere i supposti interessi di una collettività. Tantomeno quelli economici.
Il fatto poi che il rispetto dei diritti individuali consegua anche il massimo risultato economico, potrebbe essere una conseguenza accidentale (inintenzionale, aggettivo caro ai liberalisti) legata alla natura umana. In particolare, Adam Smith dimostrò, tra le altre cose, come:
– la complessità delle interazioni umane che portano al famoso “paradosso dello spillo” sia impossibile da pianificare ed imporre.
– la libertà negli scambi commerciali non possa che tradursi in un vantaggio doppio, sia per chi vende che per chi compra.
Molti poi si sono ripetuti pleonasticamente nel dimostrare che le attività pubbliche a scopo di lucro (auspicate dalla nostra costituzione come fonte di gettito per gli enti locali) sono contrarie al diritto individuale e destinate all’inefficienza. Sia perché non soggette alla libera concorrenza, indipendenti dagli obiettivi individuali, sia perché non soggette al fallimento (da cui nasce il miglioramento). E perciò fonte di spreco dell’erario pubblico, quindi danneggianti la proprietà privata ed in violazione dei limiti dell’approccio contrattualista.
Altri ancora, da Bastiat fino a Rothbard, si sono dilettati nell’elencare le conseguenza nefaste degli intenti pianificatori pubblici, ancorché in buona fede, e di come le vie dell’inferno (economico) siano lastricate da buone intenzioni (pubbliche).
Approfondendo il discorso, l’accidentalità del successo economico conseguente alla difesa del diritto individuale potrebbe essere messa in discussione, ricercando invece una autentica relazione di causa-effetto. Si può sostenere, ad esempio, l’identità tra la ricerca individuale ad un senso e ad una felicità, con l’ottenimento dei mezzi per raggiungerla, tra cui la ricchezza. E che quindi il legame tra libertà personale e creazione di ricchezza sia così stretto da ritenersi un’identità.
E può anche essere condivisibile il legame tra sistema giuridico e sistema economico, come enunciato dall’austriaco Eugen von Böhm-Bawerk: «Un mercato è un sistema giuridico. In assenza del quale, l’unica economia possibile è la rapina di strada» [6].
Ma non è lecito scambiare il fine della filosofia, che è essenzialmente giuridico, con l’effetto sulla ricchezza complessiva di un paese, rispetto a cui il liberalismo è assolutamente freddo, essendo l’economia una misura comunitaria e quindi di rango inferiore (anzi, nullo) rispetto ai valori individuali.
Il liberalismo nasce antecedentemente alla valutazioni economiche. È una filosofia esistenziale, che chiama a difesa della libertà di esistere il diritto, ed una architettura istituzionale atta ad impedire la violazione politica di tale diritto.
Da qui l’orrore dei liberali classici per il termine “liberismo”, o anche “liberalismo economico”, come se il liberalismo avesse un qualunque intento differente dalla difesa del diritto giusnaturale.
Infatti, chi creò il vocabolo “liberismo”, termine esistente peraltro solo in italiano, fu un personaggio (Benedetto Croce – definito “liberale” perché legato al partito liberale), che coniò il termine in modalità denigratoria, per sottolineare la sua distanza dal diritto alla proprietà privata e dalla libertà di iniziativa, da lui criticati. Note e link alla nota polemica tra Croce ed Einaudi su questo tema: [1], [2], [3], [4], [5]. Non è quindi corretto definire il “liberismo” come la teoria economica del liberalismo, perché il liberalismo non ne ha. Ma è anche fuorviante ridurre la semantica di tale termine ad indicare i soli dirtitti alla proprietà privata ed alla libertà di iniziativa, perché non ha senso separarli dal primario diritto alla vita, nel suo doppio significato come già spiegato qui.
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Note a piè di pagina:
[1] Pietro Moroni, Le due facce della medaglia neoliberale – Pandora Rivista, in Pandora Rivista, 25 aprile 2015
[2] Marcello Montanari, Croce ed Einaudi: un confronto su liberalismo e liberismo, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2016. URL consultato il 22 ottobre 2018. p.139.
[3]F.Hayek, Liberalismo, Ideazione, 1997, p. 62. «Ciò comporta anche il rifiuto della distinzione tra liberalismo politico e liberalismo economico /elaborata in particolare da Croce come distinzione tra liberismo e liberalismo) Per la tradizione inglese, i due concetti sono inseparabili. Infatti, il principio fondamentale per cui l’intervento coercitivo dell’autorità statale deve limitarsi ad imporre il rispetto delle norme generali di mera condotta priva il governo del potere di dirigere e controllare le attività economiche degli individui.».
[4] I sostenitori dell’esistenza di una dottrina liberista la attribuiscono ad Adam Smith e al suo saggio La Ricchezza delle Nazioni, laddove questi utilizzò il termine “liberal policy” un paio di volte per indicare il commercio privo di dazi. Smith non vedeva di buon occhio l’assenza di regolamentazione statale, infatti dichiarò: «Raramente la gente dello stesso mestiere si ritrova insieme, anche se per motivi di svago e di divertimento, senza che la conversazione risulti in una cospirazione contro i profani o in un qualche espediente per far alzare i prezzi».
[5] Carlo Scogniamiglio Pasini, Liberismo e liberalismo nella polemica fra Croce ed Einaudi (PDF), su fondazioneluigieinaudi.it.
[6] Boehm-Bawerk, Potere o legge economica?, Rubbettino, 1999, p. 67.