8 GENNAIO 1958: Il quattordicenne Bobby Fischer vince i campionati statunitensi di scacchi

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Questa vittoria gli darà la possibilità di competere sin da giovanissimo con i migliori al mondo per il titolo mondiale. Conquistò la corona degli scacchi il 1º settembre 1972, battendo il sovietico Boris Spasskij, e la perse per essersi rifiutato di difenderla il 3 aprile 1975. Trascorse gli ultimi anni di vita da cittadino islandese dopo numerose controversie con il suo Paese d’origine e la perdita della cittadinanza statunitense. Considerato tra i migliori giocatori di scacchi di tutti i tempi, nonostante la sua prolungata assenza dalle competizioni, è rimasto uno dei nomi più conosciuti di questa disciplina, anche esternamente alla cerchia degli appassionati, a causa anche dei tratti eccentrici della sua personalità. I suoi modi di fare stravaganti e la sua vita privata caratterizzata da solitudine, scarse abilità sociali e ossessione per lo studio degli scacchi portano molti psicologi a ritenere che Fischer fosse affetto da autismo. Ecco il ritratto che ne fece il grande scacchista russo Garry Kasparov in un articolo apparso su “The New York Review of Books”, qualche anno fa:

 

Non riuscirei a scrivere con distacco di Bobby Fischer nemmeno sforzandomi. Sono nato nel 1963, l’anno in cui Fischer trionfò al Campionato USA con punteggio pieno: undici vittorie, senza sconfitte né pareggi. E, sebbene fosse appena ventenne in quel momento, era evidente già da qualche anno che fosse destinato a diventare una figura leggendaria. Il suo libro, Sessanta partite da ricordare (Mursia, 2008), fu uno dei primi e più preziosi oggetti legati agli scacchi che ho posseduto. Quando nel 1972 a Reykjavik Fischer strappò il titolo di campione del mondo al mio connazionale Boris Spassky, io ero già un discreto giocatore di circolo che aveva seguito ogni mossa degli incontri in Islanda. Nel suo cammino verso la finale, l’americano aveva schiacciato altri due Grandi Maestri sovietici1, e tuttavia molti nell’URSS ammiravano tacitamente il suo affascinante talento e la sua sfacciata individualità.Sognavo che un giorno avrei giocato con lui e, alla fine, per certi versi, ci siamo realmente affrontati – anche se attraverso i libri di storia e mai di fronte a una scacchiera.Nel 1975 Fischer aveva abbandonato l’agonismo, voltando le spalle al titolo che aveva desiderato così ardentemente tutta la vita. Dieci anni più tardi io avrei conquistato il titolo, strappandolo al suo successore, Anatoly Karpov. Tuttavia, raramente un intervistatore perdeva l’occasione di farmi il suo nome: «Riuscirebbe a battere Fischer?», «Sfiderebbe Fischer, se tornasse a giocare?», «Sa dove si trova Bobby Fischer?».A volte avevo l’impressione di giocare una partita contro un fantasma. Nessuno sapeva dove Fischer si trovasse, né se l’uomo che rimaneva il più famoso giocatore di scacchi al mondo stesse pianificando il proprio ritorno.Dopo tutto, nel 1985, a quarantadue anni, era molto più giovane di due degli avversari che avevo appena incontrato nelle partite di qualificazione per il campionato mondiale. Tredici anni lontano dalla scacchiera però sono molti. Certo, mi sarebbe piaciuto avere l’occasione di gareggiare con lui, e questo rispondevo a chi me lo domandava. Ma come si può competere con un mito? Avevo già Karpov di cui preoccuparmi – che non era un fantasma. Durante l’assenza del grande Bobby gli scacchi si erano evoluti, anche se molti in quel mondo erano rimasti uguali. Fu quindi una grande sorpresa vedere riemergere nel 1992 Bobby Fischer in carne e ossa. E giocò per la prima volta in venti anni una partita – a cui ne fecero seguito altre ventinove. Deciso ad abbandonare l’isolamento che si era imposto, allettato dalla possibilità di giocare contro il suo vecchio rivale Spassky nel ventesimo anniversario del loro match per il titolo mondiale – e dai cinque milioni di dollari in palio – un Fischer appesantito e con una vistosa barba si presentò davanti al mondo in una località balneare della Yugoslavia, una nazione all’epoca dilaniata da una sanguinosa guerra.L’incontro si svolse in circostanze bizzarre: l’improvviso ritorno di Fischer, la guerra, un losco banchiere e trafficante d’armi a sponsorizzare l’evento… Ma Fischer era tornato! Nessuno riusciva a crederci.Come prevedibile, la partita disputata fra Fischer e Spassky a Svefi Stefan e Belgrado fu priva di vigore, anche se Bobby mostrò qualche sprazzo della genialità di un tempo. Era tornato definitivamente? O sarebbe di nuovo svanito con la stessa rapidità con cui era riapparso? E che dire della sua strana condotta durante le conferenze stampa? Il grande campione americano che sputa su un cablogramma del governo USA? Che afferma di non aver giocato per vent’anni perché «messo al bando […] dalla comunità ebraica mondiale»? Che accusa Karpov e me di avere combinato a tavolino ogni nostra partita? Si sarebbe dovuto fare finta di nulla, ma era impossibile.Già molti anni prima i frequenti scoppi d’ira e gli sfoghi di Fischer avevano sollevato dubbi sulla sua stabilità. C’erano poi i racconti su quei due decenni trascorsi lontano dalla scacchiera: nel mondo degli scacchi circolavano voci che fosse caduto in miseria, che fosse diventato un fanatico religioso, che distribuisse volantini antisemitici per le strade di Los Angeles. Sembravano storie irreali, troppo simili a quelle secondo cui gli scacchi indurrebbero alla follia – o sui matti che giocano a scacchi – a cui la letteratura ha dedicato numerose pagine.

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