17 SETTEMBRE 1796: Discorso d’addio di George Washington

rushmore

Washington fu comandante in capo dell’Esercito continentale durante tutta la guerra di indipendenza americana (1775–1783) ed è divenuto in seguito il primo Presidente degli Stati Uniti d’America (1789 – 1797). È considerato uno dei grandi padri fondatori della nazione ed il suo volto è ritratto sul Monte Rushmore, insieme a quello di Abramo Lincoln, Thomas Jefferson e Theodore Roosevelt. Ha anche ricoperto la carica di presidente nel 1787 della Convenzione per la Costituzione. Sulla sua figura e sul suo discorso di commiato dopo gli otto anni di presidenza vi proponiamo l’articolo di Giovanni De Notaris apparso nel giugno 2012 sul N. 54 –  (LXXXV) della rivista online Instoria.

IL FAREWELL ADDRESS DI WASHINGTON
COME NACQUE LA POLITICA ESTERA AMERICANA

Quando, nel maggio del 1796, George Washington cominciò a vergare alcune note per il suo discorso di commiato, era piuttosto stanco, e dolorante, dopo ben otto lunghi anni di mandato, incarico non particolarmente bramato, ma che, almeno in un primo momento, aveva accettato di ricoprire; e soltanto per due anni.

I due sarebbero diventati poi quattro ma, allo scadere del primo mandato, il generale avrebbe preferito declinare l’offerta di un secondo. Temeva difatti, che se fosse morto in servizio, sarebbe diventato, come prescritto dalla costituzione, presidente il suo vice, creando così, a suo parere, una sorta di mandato ereditario, sulla falsariga delle odiate monarchie europee. In quel momento storico, infatti, non sarebbe stato certo un buon esempio per la giovane confederazione, nata proprio in opposizione a un concetto ereditario, e autarchico, delle cariche politiche.

Cosa sarebbe accaduto se anche il vice fosse deceduto durante l’incarico? Si sarebbe forse andati avanti per otto anni, di vice in vice? Washington preferiva non pensarci. Il generale aveva però accettato, perché comprendeva che la sua stessa presenza avrebbe ispirato la giovane repubblica, tenendola unita, e forgiandone saldamente lo spirito. “His Excellency” nacque nel 1732, in una ricca famiglia di proprietari terrieri della Virginia. Nonostante la sua carriera nell’esercito britannico, dove raggiunse il grado di colonnello, Washington preferiva la bucolica vita da agricoltore. Amava le sue piantagioni, a cui più volte dedicò instancabilmente le energie.

Nel 1775, allo scoppio della guerra contro la madrepatria, fu nominato comandante dell’esercito rivoluzionario, temprandolo in maniera esemplare, e divenendo così il simbolo assoluto della lotta contro l’oppressore britannico.

Se i giovani stati riuscirono, dopo lunghi anni di guerra, a sconfiggere l’odiata madrepatria, parte del successo fu dovuto al grande prestigio personale di cui Washington godeva presso le truppe, che seppe sempre tenere unite e galvanizzate.
Terminata la guerra il generale si ritirò, di nuovo, a vita privata, dedicandosi alle sue piantagioni. Ma la storia lo reclamava per un fine più alto.

Dopo aver preso parte infatti, nel 1787, alla convenzione di Filadelfia, fu eletto primo presidente degli Stati Uniti d’America, dopo la ratifica della costituzione da parte degli stati membri. Washington fu l’unico presidente nella storia americana a essere eletto quasi all’unanimità.

Dopo la guerra di indipendenza, lo spirito unitario della giovane confederazione stava venendo meno, e così la sua persona, percepita da tutti con un’aura di divinità, fu il perno attorno a cui ruotò la nuova filosofia di vita americana. Ma il primo presidente, oltre ai meriti militari, ne ebbe anche un altro, quello di aver lasciato alla giovane nazione il primo caposaldo assoluto della sua futura politica estera: il suo Farewell Address.

Washington, che certo non era un abile scrittore, chiese aiuto per la stesura a Alexander Hamilton, suo segretario al Tesoro, che suggerì, tra l’altro, al presidente di pubblicare il discorso sui giornali, di modo che tutti i cittadini potessero prenderne visione.

E finalmente, nel settembre del 1796, il discorso fu pronto. Il messaggio fu di una potenza straordinaria, tutt’oggi una pietra miliare nella storia della politica estera americana. I punti salienti prendevano ovviamente le mosse dagli avvenimenti dell’epoca. Innanzitutto il presidente condannava la creazione dei partiti, perché, a suo giudizio, il dualismo partitico avrebbe danneggiato profondamente l’unità della nazione, aprendola a possibili interferenze straniere. Ma in che senso?

Washington aveva in mente la forte disputa, nata in seguito al trattato stipulato dal suo inviato John Jay, nel 1793, con l’ex madrepatria, tra coloro che sostenevano la Francia, come Thomas Jefferson, e quelli che, come Hamilton, rivendicavano, al contrario, la special relationship con l’Inghilterra.

Il trattato stipulato con l’Inghilterra, fu una conseguenza della neutralità che Washington proclamò, nel 1793 appunto, durante la guerra tra i due paesi europei. La politica americana si divise: il segretario di Stato Jefferson sosteneva, difatti, che il paese dovesse intervenire a fianco della Francia, vecchio alleato, mentre Hamilton sosteneva, al contrario, l’appoggio all’Inghilterra.

Per la prima volta nella loro giovane storia, allora, seppur in una forma embrionale, si affermarono due correnti politiche, quella repubblicana e quella federalista. Washington capì che questo rischiava, di nuovo, di minare la salda unità che, a suo parere invece, gli Stati Uniti dovevano mostrare di fronte alla non interferenza nelle polemiche antidemocratiche del vecchio continente. La sorte gli fu fortunatamente amica.

Quando difatti vennero a galla le atrocità commesse durante la rivoluzione francese, Jefferson inorridì, e il sostegno della sua fazione al vecchio alleato decadde per sempre. Allo stesso tempo però, quando l’Inghilterra, temendo comunque il sostegno statunitense alla Francia, cominciò a sequestrare le navi americane nell’Atlantico – oltre a fomentare rivolte indiane in territorio nordamericano -, anche Hamilton e i suoi dovettero convenire che era meglio tenersi alla larga dall’Europa.

Ma il presidente comprendeva, che pur perseguendo la neutralità, quegli atti di sabotaggio e pirateria, avrebbero danneggiato il florido commercio navale statunitense. È fu così che delegò Jay a trattare un accordo con l’ex madrepatria che però, condizionò comunque, seppur parzialmente, il commercio americano.

Ciò che contava, a ogni modo, era l’aver evitato una nuova guerra; guerra che gli Stati Uniti non avrebbero potuto permettersi di combattere. Per Washington già solo questo rappresentava un grande successo. Ma le differenze politiche erano comunque definite.
Il Farewell Address allora, memore di questo evento, raccomandava, in politica estera, soltanto alleanze temporanee con altri paesi.

Il non mescolarsi con paesi stranieri -soprattutto europei-, profondamente antidemocratici, avrebbe permesso agli Stati Uniti di preservare, secondo Washington, la loro unicità politica e morale; quel cosiddetto “eccezionalismo americano”, che sotto la guida di una benevola provvidenza, avrebbe reso gli Stati Uniti una nazione in continua espansione, esempio assoluto di libertà, e guida del mondo civile, proprio in virtù della sua superiorità morale.

Ma questo eccezionalismo, che nel corso dell’Ottocento avrebbe indossato i panni del più noto concetto di Manifest Destiny, sarebbe venuto meno, secondo il presidente, se ci si fosse impantanati nei conflitti europei.

Nel discorso, comunque, il presidente non negava affatto rapporti con paesi stranieri. Bisognava, anzi, intrattenere relazioni commerciali pacifiche – ma non definitive – con altre nazioni; ma sempre chiaramente a vantaggio dei propri interessi. E questo aspetto mercantile della politica estera americana non è mai tramontato.

Il Farewell Address, quindi, non auspicava affatto una politica estera isolazionista -cosa di cui impropriamente gli Stati Uniti vengono accusati- ma soltanto la necessità di non legarsi a paesi che potevano danneggiare lo spirito di libertà e uguaglianza; i due concetti fondanti dell’America.

Tra l’altro, come poi si sarebbe visto dall’Ottocento in poi, l’idea di intrattenere rapporti commerciali con altri paesi, nello specifico dell’emisfero americano o del lontano Oriente, sarebbe diventato anche un mezzo per poter condizionare l’andamento politico di quelle realtà, tradendo però in parte il messaggio del primo presidente.

Impelagarsi in questioni politiche, estranee al contesto americano, avrebbe condizionato – come poi accadde, ad esempio, nei casi del Vietnam o dell’Iraq – anche la politica interna degli Stati Uniti, rendendoli così schiavi di ideologie politiche arretrate o antidemocratiche.

Ovviamente i tempi cambiano e, certo, Washington non poteva prevedere – e sicuramente non si augurava – che, dal Novecento in poi, il suo paese sarebbe diventato una potenza globale, con responsabilità – economiche e politiche – praticamente ovunque e, quindi, necessariamente condizionato da alleanze, o interferenze, con altri paesi.

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