La Corte Suprema degli Stati Uniti libera gli africani che presero il controllo della nave Amistad sulla quale erano stati ridotti in schiavitù illegalmente.
Nella prima metà del XIX secolo il trasporto illegale degli schiavi dall’Africa a L’Avana (Cuba, all’epoca di proprietà della Spagna) era cosa abituale. Durante il tragitto i prigionieri vivevano in uno stato di malnutrizione e maltrattamento, ammassati e incatenati in spazi molto ristretti. Queste condizioni erano ancora più gravi su La Amistad, in quanto non era nata allo scopo di trasportare schiavi ma merce per il commercio costiero. Nel giugno del 1839, trasportati illegalmente dalla nave portoghese Tecora, giunsero a L’Avana 56 schiavi catturati in Sierra Leone, i quali vennero comprati da cittadini spagnoli che li imbarcarono sulla nave “Amistad’, con destinazione la città cubana di Puerto Principe (Cuba). Il 2 luglio, durante il viaggio in mare, si verificò l’ammutinamento degli schiavi che, dopo aver preso il controllo della nave, ordinarono all’equipaggio spagnolo di cambiare rotta per dirigersi verso l’Africa. I superstiti dell’equipaggio spagnolo tuttavia ingannarono gli ammutinati e navigarono lungo le coste americane finendo per essere intercettati da una nave americana al largo di Long Island. Gli africani vennero tutti catturati e imprigionati dalle autorità statunitensi. Il 7 gennaio 1840, gli africani vennero sottoposti ad un processo che li giudicò colpevoli di ammutinamento; durante il dibattimento non si tenne minimamente in considerazione il fatto che essi fossero stati fatti salire a bordo con la violenza. Un’ondata di indignazione per la vergognosa sentenza percorse la componente anti-schiavista dell’opinione pubblica statunitense; nacque così un gruppo chiamato Comitato dell’Amistad che lottò nei successivi gradi di giudizio per ottenere la libertà dei prigionieri e per sensibilizzare gli Stati Uniti sulla necessità di abolire schiavitù. Fu trovato un interprete la cui opera permise di instaurare un dialogo tra difensori e difesi approntando una migliore strategia difensiva che risultò vincente al processo successivo che ribaltò la sentenza affermando che gli africani erano stati catturati illegalmente e che quindi l’ammutinamento venne compiuto per rivendicare il loro diritto alla libertà, con il risultato che tale azione non poteva essere condannata. Questa sentenza, emessa nel gennaio 1840, rigettò anche la pretesa della Spagna di Isabella II che rivendicava la restituzione degli schiavi come merce in base a un tratto esistente tra i due Paesi. In quel periodo tuttavia l’interesse principale del Presidente degli Stati Uniti d’America, Martin Van Buren, fu quello di mantenere buone relazioni con la Spagna e non provocare un attacco diretto allo sfruttamento della schiavitù, in modo da evitare uno scontro con il sud del Paese favorevole allo schiavismo; con questa politica avrebbe potuto sperare in una sua rielezione come presidente. Per questi motivi supportò la decisione dell’accusa di fare appello alla sentenza, portando il caso dinanzi alla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America il 23 febbraio 1841. A difendere legalmente gli schiavi si schierò l’ex presidente degli Stati Uniti d’America John Quincy Adams che pronunciò un’efficace arringa che riuscì a convincere la Corte a decretare il 9 marzo 1841 lo stato di libertà agli imputati. Successivamente un gruppo di abolizionisti e gli africani stessi trovarono i fondi necessari ad affittare una nave per riportare in Patria gli ex-schiavi i quali trovarono le loro dimore distrutte e le loro famiglie scomparse, a causa di ulteriori razzie perpetrate dallo schiavismo. Nella foto, un dipinto raffigurante la nave Amistad.