22 SETTEMBRE 1943: ECCIDIO DI CEFALONIA

Salme di militari italiani sottoposti ad esecuzione sommaria il 22 settembre 1943 nella strage di Cefalonia, l'eccidio di militari italiani compiuto dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. La procura militare di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio di un ex militare tedesco, 89enne, accusato dell'uccisione di "almeno 117 ufficiali italiani" sull'isola di Cefalonia, nel settembre '43. Si tratta di Alfred Stork, che avrebbe partecipato all'ultimo atto dell'eccidio: la fucilazione di ufficiali alla 'Casetta Rossa'.      ANSA   +++NO SALES - EDITORIAL USE ONLY+++

Al momento dell’armistizio dell’8 settembre 1943, le forze dell’ Asse occupavano ancora la Grecia, aggredita nel 1941. Le isole ioniche erano presidiate dalle truppe italiane della divisione Acqui, prive, peraltro, di qualsiasi copertura aerea, con una presenza germanica localmente meno consistente, ma che poteva usufruire dell’appoggio aereo dalle vicine basi greche. Subito dopo il proclama di Badoglio, il comando tedesco, così come avvenne negli altri scacchieri, rivolse agli ex alleati un ultimatum: consegnare le armi e arrendersi, a meno che non decidessero di proseguire la guerra a fianco del Reich, aderendo all’appello di Mussolini che Hitler era, frattanto, riuscito a liberare.
A Cefalonia il gen. Gandin, comandante della Divisione, e il suo sottoposto, colonnello Lusignani, alla testa del 18 reggimento fanteria di stanza a Corfù, cercarono di prendere tempo, con la speranza anche di ricevere ordini precisi dallo Stato Maggiore,
che, al seguito del re, era riparato a Brindisi, già in mano degli Alleati, dopo l’abbandono di Roma. Nei giorni che seguirono, mentre continuavano le trattative con gli ufficiali tedeschi, si ebbero alcuni scontri minori. In seguito ad uno di essi, il presidio tedesco di Corfù fu fatto prigioniero dai nostri. Del tutto imprevedibilmente si andava manifestando nella truppa e nella maggioranza degli ufficiali un forte sentimento di ostilità nei confronti dei nazisti e, comunque, di rifiuto della resa, tanto che di fronte alla tattica temporeggiatrice di Gandin si sparse la voce che egli propendesse per l’accettazione dell’ultimatum ed un gruppo di ufficiali, armi alla mano, si presentò al comandando per intimargli di resistere. Ma non ce n’era bisogno: giunto da Brindisi un cablo dello Stato maggiore che invitava a non cedere le armi, “a considerare le truppe tedesche come nemiche e a regolarsi di conseguenza”, Gandin indisse in tutti i reparti un referendum su tre quesiti alternativi: unirsi ai tedeschi o cedere le armi oppure resistere all’attacco. La terza opzione venne accolta a stragrande maggioranza. Immediatamente il generale Gandin trasmise ai tedeschi il seguente messaggio: “Per ordine del Comando Supremo italiano e per volontà degli ufficiali e dei soldati la Divisione Acqui non cede le armi”. Richiese poi un sostegno aereo e navale che non arrivò mai.
Le truppe tedesche e gli aerei in picchiata iniziarono gli attacchi. La battaglia venne ingaggiata ma, purtroppo, dopo iniziali, alterne vicende, il 22 settembre, a causa dei micidiali attacchi dei caccia- bombardieri Stukas e dell’afflusso continuo di rinforzi tedeschi con notevole supporto di artiglieria, Gandin fu costretto ad alzare bandiera bianca. Negli scontri 1200 soldati e 65 ufficiali erano caduti, di cui molti uccisi appena arresi. Subito dopo la cessazione dei combattimenti altri 155 ufficiali e 4700
soldati italiani, considerati “franchi tiratori”, malgrado indossassero la divisa, furono assassinati, a mano a mano che venivano fatti prigionieri. Sempre dopo la resa il generale Lanz, responsabile in loco delle truppe tedesche, chiese al comando delle armate della Wehrmacht in Epiro “istruzioni circa le modalità con cui si deve procedere contro di lui [cioé Gandin], il suo Comando e contro gli altri prigionieri”. La risposta fu: “Il generale Gandin e i suoi ufficiali responsabili devono essere trattati immediatamente secondo gli ordini del Führer”. In esecuzione a tale ordine fra il 23 e il 28 settembre vennero giustiziati il gen. Gandin, altri 193 ufficiali e 17 marinai. A Corfù le perdite italiane ammontarono a 640 morti e 1200 feriti. Dopo la cessazione del fuoco vennero fucilati numerosi ufficiali, tra cui i colonnelli Lusignani e Bettini che comandavano la guarnigione. I soldati, peraltro, vennero considerati prigionieri di guerra e deportati, forse per la presenza in quell’isola di comandanti tedeschi che interpretarono in modo meno globale e crudele l’ordine di Hitler, a differenza del generale Lanz e del maggiore von Hirschfeld, responsabile diretto delle esecuzioni a Cefalonia. I superstiti furono stivati in navi sovraccariche per essere deportati in Germania. Una prima nave, l’Ardena, saltò in aria al largo del porto: l’equipaggio tedesco si salvò ma degli 840 italiani chiusi nelle stive, solo 120 scamparono all’annegamento. Altre due navi urtarono contro le mine e affondarono causando la morte di circa altri 650 prigionieri. I pochi sopravvissuti finirono nei lager del Reich, assieme agli altri 600.000 militari italiani fatti prigionieri sui vari fronti e che si erano rifiutati di aderire alla repubblica di Salò.
Al tribunale di Norimberga anche questi eventi rientrarono fra i capi di accusa contro i crimini nazisti. Il generale americano Telford Taylor, capo dell’accusa, dichiarò testualmente: “Questa strage deliberata di ufficiali (e di soldati) italiani che erano stati
catturati o si erano arresi è una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli della lunga storia del conflitto. Questi uomini, infatti, indossavano regolare uniforme. Portavano le proprie armi apertamente e seguivano le regole e le usanze di guerra. Erano guidati da ufficiali responsabili che, nel respingere l’attacco, obbedivano ad ordini del maresciallo Badoglio, loro comandante in capo militare e politico, debitamente accreditato dalla loro Nazione. Essi erano soldati regolari che avevano diritto a rispetto, a considerazione umana e a trattamento cavalleresco”. Analogo il giudizio dello storico tedesco, Gerhard Schreiber. Egli, pur giustificando dal punto di vista militare l’ultimatum della Wehrmacht per ottenere il disarmo della Acqui, afferma che le migliaia di soldati italiani uccisi “caddero vittima di brutali crimini di guerra”. E aggiunge: “Nonostante siano stati presi in considerazione nei processi di Norimberga, tuttavia gli eventi di Cefalonia e di Corfù continuano ad essere in Germania sostanzialmente ignorati se non addirittura negati”.

Nella foto: Salme di militari italiani sottoposti ad esecuzione sommaria il 22 settembre 1943.

Tratto da: Mario Pirani, Cefalonia una strage dimenticata. La storia senza memoria, in La Repubblica, 15 settembre 1999, di cui vi abbiamo proposto alcuni stralci.

 

Questo articolo ha un commento

  1. La barbaria umana non ha limite e gli assassini di Cefalonia e Corfù saranno sempre una macchia nera per i tedeschi

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