Dopo un sommario processo tenutosi a Verona Galeazzo Ciano, genero del Duce e suo ex-ministro degli Esteri viene fucilato assieme a Emilio De Bono, Luciano Gottardi, Giovanni Marinelli e Carlo Pareschi, condannati a morte per aver sfiduciato Mussolini nella seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943. L’11 gennaio 2008 Marco Innocenti, inviato del «Sole 24 Ore» e autore di numerosi libri sugli eventi mondiali e sul costume del nostro Paese, raccontava nell’articolo che proponiamo quei tragici frangenti e ricostruiva la controversa figura di Galeazzo Ciano, da sempre contrario all’alleanza tra l’Italia e la Germania.
11 gennaio 1944 / La fucilazione di Galeazzo Ciano
di Marco Innocenti
La Repubblica sociale, appena nata, vive fra l’ebbrezza di un potere effimero e il presagio della morte. Mussolini è un fantasma, l’ombra dell’uomo che fu. Una sola forza sostiene i fedelissimi: la lotta ai traditori, la vendetta. Catalizzatore degli odi è Ciano. E Ciano deve morire.
La scarica fatale
La mattina dell’11 gennaio 1944 vento e morte si danno appuntamento a Verona. Galeazzo Ciano lascia il carcere degli Scalzi: la sua vita sta per coniugarsi all’imperfetto. Le colline attorno alla città sono bianche di neve, l’aria che si leva spazza via la cortina opaca delle nuvole e quel filo di nebbia che filtrava le immagini in dissolvenza. I capelli arruffati, l’impermeabile beige di Caraceni gonfio di un’insolente tramontana, Ciano va a morire. La vita che gli ha dato tutto sta per togliergli tutto. Poco dopo, al Poligono di Porta Catena, l’esecuzione: una scarica rabbiosa di fucileria, il colpo di grazia, il corpo disteso a braccia larghe come un crocefisso, il riscatto di una morte coraggiosa. Il “più bello del reame” muore meglio di come era vissuto.
Il «delfino» del Duce
Era stato il “delfino” di Mussolini, il secondo uomo più potente del fascismo, ministro degli Esteri, marito di Edda, grande seduttore, la stella mondana del regime, uno Scott Fitzgerald senza gin, tutto spalmato di snobismo, protagonista indiscusso di una corte da basso impero. Aveva fatto il portaborse di lusso del duce, poi, tardivamente, si era opposto ai nazisti, anche se a modo suo, con buone intenzioni e modesti risultati; si era esposto, aveva votato contro Mussolini al Gran Consiglio del 25 luglio 1943, si era messo contro la Germania e Hitler, che lo odiava di un tenace odio austrico, aveva giurato di saldargli il conto.
In carcere
Ospite-prigioniero dei tedeschi, Galeazzo è consegnato alla Repubblica sociale il 19 ottobre 1943. Incarcerato a Verona, è un uomo che vive a prestito. Il processo è una farsa, la condanna a morte un copione già scritto. Edda si batte per lui, gioca la carta dei Diari, ma tutto è inutile. Mussolini, che potrebbe salvargli la vita, non lo fa: non vuole (né può) contrastare Hitler e gli estremisti “neri”. E l’11 gennaio 1944 l’ex ministro degli Esteri fascista viene fucilato dai fascisti. «Muoio senza odiare nessuno», sono le sue ultime parole. Un anno dopo, nell’anticamera della fine, rievocando la morte del genero, Mussolini scaricherà il suo dolore represso: «Quel giorno – dirà – con Galeazzo sono morto anch’io».
Il vino della Mosella
Battuto dalle agenzie di stampa, l’annuncio della fucilazione di Verona scavalca le frontiere e si ferma sulle scrivanie di ambasciatori, ministri e capi di governo alleati e nemici. Molti, fra i notabili della politica, avevano avuto il conte Ciano come gradito commensale alla loro tavola e ricordavano i capelli pettinati con cura, le unghie impeccabilmente tagliate, la predilezione per i vini della Mosella, il fazzoletto di seta profumato nel taschino e il vezzo di portare il bicchiere alle labbra rizzando il mignolo per poi forbirsele delicatamente con il pizzo del tovagliolo ripiegato: un tocco di classe di un uomo che aveva lasciato una scia profumata nei salotti e nelle alcove, per poi finire disteso come un sacco di stracci sull’erba ghiacciata, nell’odore pesante di un terrapieno di periferia.