Viaggio agli antipodi di Instagram

Maier
di Enrico Galloni.
Che atteggiamento avete nei confronti delle foto che scattate? Condividete compulsivamente su facebook e instagram oppure mantenete la maggior parte dei vostri scatti nella sfera privata mostrandoli solo a pochi eletti con cui siete in confidenza?
Oggi tutti abbiamo costantemente in mano una macchina fotografica incorporata nel nostro immancabile telefono, alcune di queste camere sono anche di buona qualità, siamo quindi in grado teoricamente di immortalare tutto quello in cui ci imbattiamo, molti di noi lo fanno e lo condividono anche in rete ma quanti di noi dispongono di un cervello che guardando una scena dice “click” anticipando la foto perfetta come composizione, esposizione, racconto di una storia?
Nel nostro mondo tutto si basa sull’immagine, disponiamo di tecnologie che teoricamente rendono gestibile da chiunque il processo fotografico anche dal punto di vista dei costi, nonostante questo la stragrande maggioranza delle foto che vedo condividere sui social sono, nella migliore delle ipotesi, stereotipi di un buono scatto o in alternativa dei totali disastri.
Da qualche mese seguo una storia incredibile che per alcuni aspetti si collega allo scatto compulsivo odierno e per certi altri si colloca agli antipodi delle nostre manie, comunque la si guardi si tratta di una scoperta eccezionale .

Nel 2007 un temporary storage a Chicago  mette all’asta il contenuto di cinque armadi per i quali da tempo non veniva pagato l’affitto, il contenuto viene acquistato da tre collezionisti tra cui John Maloof regista e scrittore di 26 anni che era alla ricerca di immagini vintage relative al quartiere di Chicago in cui vive per la realizzazione di un libro, nella scatola da lui acquistata John trova molti negativi della Chicago anni 60 che pensa inizialmente di poter utilizzare.
Dopo aver realizzato che il materiale non era utile al progetto John scansiona un centinaio di immagini e le mette in vendita su ebay,le condivide su flickr e su dei blog di fotografia la cosa viene notata dal fotografo Alan Sekula che chiama John pregandolo di fermare la vendita delle foto e di analizzare meglio il contenuto di quanto acquistato in quanto a suo avviso ci si trova di fronte ad un artista di grandissimo valore.
Il materiale contenuto negli armadi è una quantità immensa di ritagli di giornale, effetti personali ma soprattutto :i negativi di 100.000 scatti, migliaia di rullini mai sviluppati, nessuno sa a chi appartengano con esattezza,si vocifera che la proprietaria sia un’anziana signora non in salute.
Rovistando e catalogando nel materiale acquistato John ritrova un talloncino di un laboratorio fotografico con nome ed indirizzo di una certa Maier, ma l’indirizzo non è più valido e la ricerca non progredisce.
Solo nel 2009 John legge un annuncio mortuario sul Chicago Tribune:
“Vivian Maier, fiera nativa della Francia e da 50 anni residente a Chicago è serenamente deceduta Lunedì.
E’ stata una seconda madre per John, Lane e Mathew.
Il suo spirito libero e compassionevole ha magicamente toccato le vite di coloro che la conobbero, sempre prodiga di consigli,opinioni o aiuti.
Critica cinematografica e talentuosa fotografa era una persona veramente speciale che sarà lungamente rimpianta e la cui meravigliosa vita noi oggi celebriamo e mai dimenticheremo.”
L’annuncio era pubblicato dalla famiglia Gensburg presso cui Vivian aveva prestato servizio come tata in gioventù, i ragazzi che aveva allevato la avevano nuovamente incontrata da adulti lei anziana in povertà e mezza vagabonda e si sono presi cura dei suoi ultimi anni.
Ricostruire la vita di Vivian è un’impresa difficilissima, non ci sono parenti a reclamare i suoi averi, quello che sappiamo è che in realtà è nata nel Bronx nel 1926 da madre francese, si è trasferita in Francia in gioventù per poi tornare in USA dopo alcuni anni, ha sempre lavorato come tata per le famiglie benestanti prima di New York e poi di Chicago, il suo hobby? la fotografia tanto da lasciare in eredità oltre 100.000 foto tutte bellissime.
Ci sono moltissimi aspetti particolari nella vita di Vivian, il primo agli antipodi con l’attuale cultura è che fotografava per se stessa, a quanto ne sappiamo non ha mai esposto ne condiviso con nessuno i suoi lavori, pare che abbia consapevolmente scelto il mestiere di tata in quanto era un lavoro che le garantiva un tetto, del tempo libero e la possibilità di dedicarsi alla sua passione.
Vivian teneva senza dubbio moltissimo alla sua privacy al punto da utilizzare falsi nomi sia quando cambiava lavoro che quando doveva lasciare un recapito presso negozi fotografici o lavanderie.
Come noi oggi abbiamo la macchina fotografica sempre in tasca così Vivian, la  portava al collo: una Rolleiflex biottica  6×6 (formato quadrato come Instagram), questa macchina ha la caratteristica che non serve portarla davanti agli occhi per mirare ma bisogna guardare in giù verso la macchina che pende dal collo del fotografo.
Probabilmente questa è una delle caratteristiche che  facilita i famosi scatti “rubati” da street Photographer  realizzati da Vivian.
Come tata Vivian è sicuramente non convenzionale ed è amata o odiata dalle famiglie in cui lavora, ci sa fare con i bambini, in casa sa svolgere il suo lavoro ma allo stesso tempo la sua routine include lunghe passeggiate quotidiane assieme ai bambini, soprattutto nei bassifondi dove lei trova i soggetti più interessanti per le sue foto, va da se che molte famiglie non apprezzino questa prassi.
Inizialmente spostarsi di famiglia in famiglia era semplice ma poi l’accumularsi dei suoi lavori, delle sue collezioni di oggetti e ritagli di giornale rendeva sempre più complesso il trasloco.
Si dice che ai colloqui di lavoro annunciasse: “vengo con tutta la mia vita” per poi presentarsi con oltre 200 chili di scatoloni a cui si faticava a trovare spazio, in un caso sembra che il pavimento della sua stanza abbia ceduto sotto il peso della sua collezione.
Gestiva la sua camera nelle case dove lavorava come una fortezza, pretendeva si montasse una grossa serratura che restava sempre chiusa e non ammetteva visite di nessuno.
A causa dell’ espandersi esponenziale della sua collezione ha probabilmente iniziato ad utilizzare i temporary storages per alloggiare i suoi averi e muoversi con più semplicità.
L’avanzare della vecchiaia ed il suo desiderio di libertà hanno reso sempre più difficile per lei ottenere lavori remunerativi e si è trovata quindi in povertà,sola e probabilmente anche con disagi psichici, non ha mai smesso però di vivere molto tempo all’aperto ed osservare tutto ciò che le accadeva intorno.
Per John la scoperta di Vivian è stata come un fulmine a ciel sereno ed è praticamente diventata un lavoro a tempo pieno  anche grazie al successo che il lavoro della nostra tata sta riscuotendo con mostre in tutto il mondo.
Ho avuto occasione di visitare una di queste mostre, inizialmente incuriosito dalla storia, sorpreso dalla coda per entrare in galleria ed infine profondamente emozionato nel trovarmi di fronte a questi scatti.
Le foto sono quasi tutte in bianco e nero, con una composizione ed un’esposizione perfetta, si nota la capacità di cogliere al volo istanti di varia umanità di fronte ai quali si potrebbe fantasticare per ore immaginandosi la storia delle persone fotografate.
A dispetto della fama di donna riservata e scontrosa Vivian riesce a scattare molto da vicino i suoi ritratti dimostrando di essere in grado di entrare in empatia con i soggetti dello scatto.
Precorritrice del “selfie” Vivian scatta tantissimi autoritratti utilizzando ogni superficie specchiante che incontra nelle sue passeggiate: vetrine, specchi di bar, rottami, ombre, specchiere di armadi scaricati da un’azienda di traslochi…
Conoscere la sua storia e visitare la mostra è come entrare in contatto con lei, la testa si riempe di domande, è difficile accettare nella nostra società che un tale talento abbia vissuto la sua arte in totale solitudine.
E’ stata veramente una scelta? Oppure Vivian aveva un progetto artistico che per qualche ragione era troppo ambizioso e non ha fatto a tempo a completare nell’arco della sua vita?
La malattia mentale ha forse  bloccato a un certo punto il suo sviluppo artistico? Ci troviamo di fronte ad una Van Gogh della fotografia?
Si può commentare questa storia sotto infiniti punti di vista.
E’ una storia di ricerca estrema della libertà in senso quasi buddista: liberarsi di tutti i bisogni in modo che i desideri non interferiscano con l’obbiettivo reale.
E’ una storia di femminismo.
E’ un pezzo di storia della fotografia moderna.
E’ una storia di mercato, senza il quale il self storage non avrebbe mai messo in vendita il contenuto dei locali per i quali non veniva pagato l’affitto permettendo la scoperta dell’opera di Vivian.
Ma la più importante riflessione su cui voglio richiamare l’attenzione è che molto più spesso di quanto crediamo le nostre vite corrono parallele a quelle di persone eccezionali che, nascoste dal rumore del futile protagonismo di molti sviluppano nell’ombra  idee e  lavori eccezionali.
Il genio non è amico del conformismo; nella ricerca di costruire vite preordinate, regolamentate e prevedibili non notiamo chi fa scelte divergenti, spesso lo disprezziamo lasciandolo solo.
Da liberista questa storia mi ammonisce sul fatto che ci sono valori che non stanno su nessun mercato ma solo dentro di noi e che molto spesso dimentichiamo.
 “Beh, suppongo che niente sia fatto per durare in eterno. Dobbiamo lasciare spazio per altra gente. E’ una ruota. Tu sali, devi arrivare fino alla fine. E poi qualcuno ha la stessa opportunità di andare fino alla fine e così via.”
(Vivian Maier)
Nella sua ricerca John Maloof ha prodotto un film documentario nominato agli oscar 2015 http://www.findingvivianmaier.com/
Nel frattempo John ha rintracciato anche i lavori finiti in altre mani durante l’asta gestendo una collezione che ancora non ha trovato una casa http://www.vivianmaier.com/
Fino al 31 Gennaio 2015 si possono vedere a Milano 120 foto di Vivian http://www.formafoto.it/2015/09/prossimamente-vivian-maier-street-photographer-dal-19-novembre/

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