SCIACK! IL DITO NELL’OCCHIO AL CINEMA. “Woman in gold” di Simon Curtis

di Roberto Bolzan

La vicenda è straordinaria e raccontata con semplicità ed efficacia.

È la vera storia di Maria Altman, nata viennese nel 1916 e morta nel 2011 negli Stati Uniti, di cui era diventata cittadina nel 1945 dopo esservi emigrata in seguito alle persecuzioni razziali naziste. Il resto della sua famiglia rimane in Austria e viene disperso e sterminato dai nazisti.

Negli anni ’90 la signora Altman, interpretata dalla splendida Helenn Mirren, decide di fare causa al governo austriaco per recuperare la proprietà di un dipinto che le appartiene. Si tratta del celeberrimo Ritratto di Adele Bloch-Bauer, olio ed oro su tela che ritrae la zia della protagonista su commissione del marito, l’importante industriale Ferdinand Bloch-Bauer.

Aiutata di un giovane avvocato, interpretato da Ryan Reynolds, l’anziana signora Altman riuscirà ad affermare i suoi diritti nonostante la cocciuta ed ottusa opposizione dei funzionari austriaci che rifiutano anche i compromessi più favorevoli pur di non riconoscere la vera proprietà del dipinto.

Dopo la lunga battaglia legale avvenuta in Austria e negli Stati Uniti (nota come Republic of Austria v. Altmann), una corte di giudici stabilì, nel 2006, che il ritratto di Adele, assieme ad altre opere di Klimt, doveva rimanere in possesso di Maria Altman.

Acquistato da Ronald Lauder per 135 milioni di dollari il ritratto venne quindi esposto in mostra permanente nella Neue Galerie di New York di Lauder, come richiesto da Maria Altman, dove rappresenta nel modo più straordinario la fase dorata della pittura del grandissimo artista viennese.

Non sempre i film sono dei capolavori. A volte sono onesti lavori che fanno quel che devono fare, adempiono alla loro funzione, che è narrare ed interessare lo spettatore. La grande arte del cinema consiste anche in questo: nell’avere una scuola e le idee così chiari di cosa sia il racconto cinematografico da riuscire a rendere emozionante e coinvolgente qualunque storia. E qui siamo in presenza proprio di questo: di un onesto racconto senza fronzoli ma capace di catturare l’attenzione di noi spettatori  per quasi due ore e di tenerci con il fiato sospeso fino alla sentenza finale, anche se sappiamo già come va a finire.

Non che manchino i motivi d’interesse, sia chiaro. Vedere, immaginare Klimt che applica la foglia d’oro, entrare nell’epoca straordinaria della Vienna d’inizio secolo, e poi seguire le emozioni di una persona che rivede in quel ritratto la propria famiglia ed il proprio illustre passato, non è poco.

E poi l’affermazione della proprietà privata. La proprietà del quadro che diventa così importante nella storia perché attraverso questa viene riconquistata l’identità e in definitiva la dignità personale e l’anima. Non è per danaro che viene condotta la causa legale, ma per un istinto incoercibile di affermazione dei proprio diritto inalienabile alla proprietà.

E’ straordinario vedere, nella storia per come è narrata, come questo diritto di proprietà e il sopruso che viene compiuto dallo stato diventino altrettanto importanti che il destino della famiglia d’origine, che pure viene in parte sterminata dai nazisti ed in parte dispersa. Storia non proprio leggera, direi; eppure messa sullo stesso piano della questione del diritto alla proprietà dell’opera.

Una vicenda esemplare per dei libertari, con la prova che il diritto alla proprietà è un diritto fondamentale non meno che il diritto alla vita ed alla libertà.

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