SCIACK! IL DITO NELL’OCCHIO AL CINEMA. “Il ciclone” di Leonardo Pieraccioni (1996)

di Roberto Bolzan

Intanto, perché parlare oggi di questo film? ma perché abbiamo sempre vivo il suo ricordo come del fondo dell’abisso di un periodo particolarmente infelice del cinema italiano e pensiamo sempre di doverne parlare. Un prototipo, insomma, da prendere ad esempio negativo per le nostre chiacchierate domenicale sul cinema.
Qualche giorno fa abbiamo interloquito con amici, stupendo per il nostro giudizio (accade spesso) ed ecco spiattellata l’occasione. Non ce la facciamo scappare.

Allora. la pellicola narra, se così si può dire, di un gruppo di ballerine spagnole di flamenco che, rimaste a piedi, trovano ospitalità presso una famiglia in una casa della campagna toscana, portando scompiglio a causa delle loro prorompente bellezza e della vitalità ispanica.
Tutta la famiglia vede la vita sconvolta, in particolare il figlio ragionier Levante che s’innamora di una di queste. Dopo una gran quantità di interecci amorosi che coinvolgono anche la figlia e l’altro figlio il gruppo riparte portando con sé Levante che alla farà famiglia in Spagna, sempre da ragioniere.

Della devastante stagione Cecchi Gori il Ciclone ci è sempre sembrato il massimo della volgarità e soprattutto del cattivo cinema, senza idee ma presuntuoso.
Innanzitutto la parlata toscana come motivo conduttore e vero e unico motore umoristico, come nella peggiore tradizione del cinema italiano, che in primo luogo lo rende intraducibile all’estero, relegandolo ad un mercato secondario, in secondo luogo lo tiene fatalmente agganciato al genere cabarettistico dai quale gli attori d’altronde provengono.
Poi l’umorismo inteso come una somma di gag, più o meno correlate fra loro, senza riguardo per la storia. Certo si fanno film dignitosi o anche grandi infilando perle una dopo l’altra sul filo di una inesistente trama, ma bisogna esserne capaci e dichiararlo onestamente. Se no è fare nozze con i fichi secchi.

Poi l’italia rurale stereotipata, ferma alle immagini degli anni ’50, che il nostro cinema non è capace di rinnovare: il padre che si alza per ballare e si alza quasi una nuvola di calcina dalla canottiera, pare avere il filo di fieno in bocca e in testa il cappello floscio del bifolco. Possibile che non si possano descriver personaggi più moderni, faranno pure del biologico questi, nella Toscana di vent’anni fa. Mica più hanno quelle facce e quelle canottiere, via.
Oppure gli spinellatori tra le galline, le capre ed il deposito del gasolio per il trattore. Ma vi pare? trovate oggi un giovinastro che si occupi del pollaio e dei campi. Ci sono tanti altri che hanno più bisogno di lavorare.

Poi le bellone del piccolo schermo e l’ovvia triviale insistenza della telecamera sui busti sodi e trabordanti, mentre gli uomini sono sfigati in giacca lisa e motorino con i pedali. Ma le donne s’innamorano perdutamente dell’uomo con pancetta, benché ragioniere.

Ma c’è una scena che classifica questo come il film esemplificativo del cinema volgare perché refrattario a qualunque intelligenza e ad ogni traccia di cultura. Scena nota come la scena del flamenco. Dove infatti il flamenco non esiste. Un corpo di ballo di flamenco danza infatti sulle note di The Rhythm Is Magic che Google clasifica come “dance elettronica”.

Il flamenco è una danza molto complessa, nata alla fine del settecento nell’Andalusia, molto spettacolare. Si presta ad essere filmato così come alla presentazione colta ed alta, sia pure in una commedia e con le esigenze della commedia. Si presta, ma bisogna volerlo, bisogna esserne capaci, bisogna avere la curiosità e l’intelligenza di trasporre un’arte antica e piena di pathos in una pellicola.
Crediamo che nemmeno nele cinematografie dei paesi più arretrati dell’Africa subsahariana si sarebbero lasciati sfuggire l’occasione ed avrebbero fatto ballare un vero gruppo di flamenco ed avrebbero inserito . Il cinema è spettacolo, dopo tutto.
Non Pieraccioni: nella sua intima e progonda ignoranza non trova di meglio che fare ballare con movenze da discoteca il successo tormentone dell’anno prima. Il pubblico sarà così contento, orecchiando al volo e non dovendo fare alcuno sforzo per capire cose che non conosce.

Ecco, qui sta la profonda volgarità di questo film, il ribasso continuo alla banalità di massa, l’usare il flamenco come richiamo esotico per storditi e poi ritirarsi e propinare la banalità del disco per l’estate e spacciare per erotismo modeste attricette però note al pubblico e ben dotate fisicamente.

 

Mille volte più onesti e comunque meno volgari i cinepanettoni dei fratelli Vanzina con le loro battutacce truci, credetemi.

PS: poteva mancare in questo florilegio di ovvietà la trasgressione da rotocalco? ed infatti ecco che la sorella è lesbica e se la fa di nascosto con la cassiera del tabaccaio.
Ripeto, viva i cinepanettoni.

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