SCIACK! IL DITO NELL’OCCHIO AL CINEMA. “Flags of Our Fathers” e “Lettere da Iwo Jima” di Clint Eastwood (2006 e 2007)

di Roberto Bolzan

 

Siamo rimasti molto delusi dal modo in cui Mel Gibson tratta la guerra. Ne abbiamo parlato la scorsa settimana. La guerra, infatti, non si esaurisce con il realismo delle immagini e con le belle storie, ma richiede intelligenza sia nel combatterla che nel raccontarla. Siamo quindi andati a vedere un film (anzi, una coppia di film, perché vanno visti insieme) che rappresenta l’esatto opposto, da questo punto di vista. Tutti i film oggi partono dallo standard, stabilito da Salvate il soldato Ryan di Spielberg e dalle scene di sbarco crudeli e violente vanno poi ciascuno per la sua strada.

Durante la seconda guerra mondiale sulla piccola isola di Iwo Hima, tra la spiaggia di sabbia nera e le cave di zolfo, si combatte una battaglia feroce tra americani e giapponesi.
L’isola, su cui erano dislocati 22mila giapponesi, era la stazione di pre-allarme per la terraferma e consentiva alle difese antiaeree nipponiche di colpire facilmente i bombardieri americani. Lo sbarco inizia il 19 febbraio 1945 e durante la battaglia, durata più di un mese, muoiono 7mila americani e 21mila giapponesi.

Due cose accadono in quella battaglia: gli americani piantano una bandiera su una cima e la foto che ritrae l’evento viene usata dalla macchina di propaganda americana come simbolo tangibile della imminente vittoria sul nemico ed al contempo per raccogliere fondi da destinare ai disastrosi bilanci della guerra; un soldato giapponese seppellisce nella sabbia le lettere dei suoi compagni scritte per i familiari e non ancora spedite.
Lo scrittore James Bradley, figlio di uno degli uomini che alzarono la bandiera americana, decide di cercare altri reduci di quella spedizione militare e chiedere loro cosa realmente fosse successo in quei giorni. Bradley constata presto che molte delle cose che il mondo crede di sapere sulla foto e sulla battaglia sono sbagliate, soprattutto perché essa fu assunta come simbolo della vittoria mentre in realtà fu scattata solamente il quinto di quaranta giorni di sanguinosa battaglia. I soldati giapponesi, mandati allo sbaraglio, sono consapevoli di non tornare più a casa. Persone comuni che desiderano solo tornare a rivedere il figlio appena nato, oppure coltivare le proprie passioni sportive, assolutamente impreparate alla guerra. Il comandante Tadamichi Kuribayashi, uomo di grande cultura, è stato a lungo negli Stati Uniti e sa perfettamente di combattere una guerra senza speranza ma, profondo conoscitore delle strategie militari, ha l’obiettivo di uccidere almeno dieci americani.
L’idea geniale è stata di girare due film nei quali le storie si sviluppano parallele, ma senza la necessità di intrecciarle. In questo modo ciascuna delle parti è girata singolarmente in modo da rappresentare nel modo più libero le caratteristiche dei due popoli coinvolti nel conflitto.

Ci sono immagini che fanno parte della memoria storica, che tutti conosciamo. Sull’immagine della bandiera si sviluppa una storia antieroica che sgretola la retorica della guerra raccontandone i risvolti meschini, tra le esigenze di propaganda e la necessità di finanza. Al termine del racconto, tra dialoghi di imbarazzante banalità, psicologie grossolane e sentimenti  elementari non rimangono che macerie morali ed umane, anche quelle dei soldati, il cui unico desiderio è di tornare a combattere con i compagni, perfino incapaci di provare orrore per la guerra e di pensare ad un modo migliore di vivere.

In confronto ai soldati americani, che come abbiamo accennato possono contare sul senso di coesione e di cameratismo democratico, quelli giapponesi devono sottomettersi ad una struttura gerarchica che dà ordini idioti e non cerca la coesione nelle truppe.
La parola data ai vinti toglie la luce ai vincitori e mostra aspetti di grande umanità che non avremmo altrimenti potuto capire dalle immagini di masse urlanti che si gettano a corpo morto su nemico per essere falciate dalle mitragliatrici. Eastwood non è tenero con giapponesi e mostra senza remore il crudo e brutale trattamento al quale i soldati sono destinati da una struttura militare affetta dal peggior nazionalismo, né nasconde le orribili sequenze dei suicidio rituale eseguito a granate. Ma mostrare le persone, dare la voce agli individui, ridà umanità al nemico, che viene combattuto si ma non annullato.

Lettere da Ivo Iima è girato in giapponese e si può vedere con i sottotitoli; la fotografia domina su tutto, desaturata fin quasi al bianco e nero, con sfumature di luce stemperate con il pennello; l’isola incombe quasi animata, con le sue nere sabbie vulcaniche; la musica prosciugata e subliminale aggiunge allucinazione ad un sonoro secco e ridotto all’osso.
Un capolavoro, inizialmente pensato per l’home video solo per il mercato giapponese e poi portato quasi spontaneamente alla distribuzione internazionale.

 

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