di Andrea Babini
5) Dagli anni 90 a oggi. Gli inutili tentativi di impedire un fallimento annunciato.
Il SSN iniziò a entrare in funzione tra il 1979 e il 1980 e il suo finanziamento era statale, cioè a carico della fiscalità generale. E questa era la più macroscopica anomalia del “sistema italiano della salute”. A fronte di un decentramento della spesa si manteneva a carico dello stato centrale la leva fiscale delle entrate per finanziarla, con una evidente mancanza di responsabilizzazione oggettiva degli amministratori.
L’aumento degli oneri e dei servizi, gli sperperi, la corruzione, le inefficienze, le logiche clientelari locali fecero triplicare i costi della sanità. Dopo pochi anni la situazione era già insostenibile e nel 1989 si istituì il “ticket”, introducendo il concetto della compartecipazione alla spesa sanitaria da parte dei cittadini e liquidando di fatto i bei principi “universalistici” e velleitari del diritto alla salute fissati in Costituzione. Ma era nulla rispetto a ciò che attendeva gli italiani negli anni a venire.
L’andazzo della spesa, della corruzione e degli sprechi aveva generato un vero e proprio sistema partitocratico della corruzione alla luce del sole, e questo nel 1992 aprì la strada all’inchiesta “mani pulite” e al conseguente collasso dello schieramento politico che aveva governato l’Italia dai primi anni 80. Alla fine dell’estate si ebbe il tracollo della lira che uscì dal Sistema Monetario Europeo, trascinando al ribasso i titoli di stato del colossale debito pubblico italiano. Si resero necessari, per recuperare credibilità agli occhi degli investitori internazionali, interventi di durevole riduzione e contenimento della spesa, ora non più cosi ideologicamente inaccettabili dopo il trionfo nel mondo anglosassone del neoliberismo di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Così toccò al parlamento degli inquisiti, e ai due governi di transizione tra la prima e la seconda Repubblica (governo Amato e governo Ciampi) decidere gli interventi correttivi ad un SSN ormai insostenibile. Con in decreti legislativi 502 del 1992 e 517 del 1993 si realizzò quella che fu definita “l’aziendalizzazione” del Sistema Sanitario Nazionale, teoricamente ispirato alle politiche della Thatcher, ma da esse colpevolmente lontana anni luce. Infatti non si trattò né di privatizzazione e tantomeno di liberalizzazione (anche se le si spacciò per tali per poter accusare il colpevole di sempre, il liberismo), ma solo di una razionalizzazione della gestione. Con tale scelta si iniziava a rinunciare all’omogeneità delle prestazioni sul suolo nazionale: venivano non solo devoluti poteri alle Regioni, ma si rendevano le stesse anche economicamente e (almeno in parte) politicamente responsabili dei propri sistemi sanitari.
Le USSL divennero ASL (Aziende Sanitarie Locali), aziende pubbliche, con autonomia imprenditoriale e gestite da potenti manager della salute teoricamente secondo logiche di efficienza economica. Le Aziende Ospedaliere vennero scorporate da queste realtà.
Parallelamente si aprirono (parzialmente) le porte alle strutture sanitarie private attraverso lo strumento dell’accreditamento che le retribuiva con fondi del SSN affrancandole da un ruolo meramente accessorio.
Come nel periodo delle mutue, si tornava di fatto alla separazione tra gli i soggetti committenti e paganti (ASL) da una parte e le strutture erogatrici dall’altra (Ospedali pubblici e privati).
L’idea ispiratrice a livello teorico era quella di un sistema in cui l’ASL rimborsava l’ente erogatore scelto liberamente dal paziente, in modo da mettere i diversi soggetti in diretta concorrenza tra loro. Concorrenza individuata (non a torto) come foriera di efficienza del sistema.
L’errore di fondo era che non si può fare una riforma “liberista” mantenendo il centro decisionale di spesa in mano al settore pubblico. La scelta alla fine è di chi paga. In realtà i Direttori Generali delle nuove ASL con potere di manager aziendali erano nominati dalle Regioni, erano quindi comunque legati a referenti politici dei partiti che avevano la maggioranza in regione. Continuava cioè, a livello regionale e non più comunale, la spartizione del pubblico denaro della sanità tra i due schieramenti, non più pentapartito e PCI, ma l’alleanza di centrodestra formata dalle nuove formazioni Forza Italia, CCD, Lega Nord e AN e il centrosinistra formato dai partiti nati delle ceneri del vecchi PCI (PDS e Rifondazione Comunista) insieme a formazioni ecologiste, ex socialisti e sinistra democristiana.
Con questo intervento entriamo nella fase delle riforme attuate a metà, degli interventi correttivi di scarso respiro, dei tagli lineari mascherati da modernizzazioni. Alla fine questa finta “privatizzazione” del sistema fu attuata solo in due regioni (Sicilia e Lombardia), anzi a causa di politiche regionali opposte si assistette a una divaricazione crescente tra i vari servizi regionali; sono in tal senso paradigmatici i modelli lombardo semiliberalizzato e quello emiliano che ha mantenuto, anzi accresciuto l’assoluta centralità pubblica.
Questo tipo di divaricazione si tradusse anche in tensioni continue tra le regioni e il governo centrale a seconda di chi era al potere a Roma. In seguito a uno tra i più accesi di questi contrasti istituzionali con il presidente della regione Lombardia Roberto Formigoni, il ministro della sanità del governo D’Alema, Rosy Bindi mise mano a una legge che ponesse un limite al divario tra le regioni in materia sanitaria. Tale provvedimento, la legge n.229, fu approvato nel 1999 ed introdusse i LEA o Livelli Essenziali ed Uniformi di Assistenza.
Nelle idealistiche visioni del ministro i Lea dovevano essere uno strumento che ripristinava il principio dell’equità nazionale nell’accesso all’assistenza. Vi trovano spazio iniziative tese alla cura delle malattie croniche, ai servizi domiciliari, alla riabilitazione e a vari altri servizi. Ma, ovviamente, data la situazione di “cronica emergenza” dei conti pubblici, la legge venne subito depotenziata e contraddetta dal fatto che il finanziamento delle prestazioni sanitarie venne decurtato decisamente.
Su questo occorre fare una riflessione, dalla fine degli anni 90 infatti si assisterà con sempre maggiore frequenza ad un comportamento schizofrenico da parte della politica e del legislatore di turno che dura fino ad oggi; da un lato non riesce a venire meno l’impostazione ideologica del diritto alla salute e i governi si lanceranno in annunci sempre più roboanti riguardo a fantomatiche rivoluzioni digitali e modernizzazioni del servizio in ambito sanitario, dall’altro la drammatica realtà dei conti pubblici li costringerà a legiferare in ben altro senso.
Nei primi anni del nuovo millennio si determina comunque la struttura della sanità pubblica come la conosciamo oggi. Alle velleità ancora “universaliste” dei LEA fanno seguito una serie di provvedimenti che culminano, da parte del secondo governo Amato, nella Legge Costituzionale 3 del 2001 che attribuisce alle singole Regioni la competenza esclusiva nel campo della sanità. Una riforma falsamente federalista varata allo scopo di attrarre gli elettori della Lega Nord e in generale di rispondere alle crescenti mode federaliste di quel decennio. In realtà si continua sulla falsariga dei provvedimenti precedenti, la spesa affidata alla periferia, senza responsabilizzarla con la concessione della leva fiscale conseguente.
L’andamento schizofrenico dei governi in questa fase crea un dualismo che si va a sommare alla normale dialettica politica tra destra e sinistra. Lo Stato eroga i fondi e stabilisce le LEA, le regioni gestiscono i fondi stessi e perseguono gli obiettivi sia concordati che scelti autonomamente. Di fatto i fondi sanitari “mantengono” le regioni di cui rappresentano l’80% del bilancio.
Tale dualismo per essere gestito in modo non traumatico richiede strumenti consoni e luoghi adeguati di mediazione, cosi la Conferenza Stato-Regioni assume in ambito sanitario un ruolo di primo piano. Inizia la fase nella quale ci troviamo ancora adesso, la fase pattizia tra Stato e Regioni.
Si arriva così ai nostri giorni, nei quali sempre più, come ho già accennato, si assiste a una divaricazione tra gli intenti, le dichiarazioni e anche la normativa teorica e l’esercizio della prassi da parte della politica.
Cosi, con il “Patto per la Salute”, accordo programmatico poliennale in materia sanitaria tra Governo centrale e Regioni, da un lato il Governo si impegna a garantire risorse adeguate ai LEA richiesti e dall’altro le regioni si impegnano a non sforare i bilanci, assumendosi eventuali disavanzi.
Questi impegni si rivelano però da anni di fatto impossibili da rispettare, le crisi finanziarie del 2008 e quella dei debiti sovrani del 2011 si rivelano catalizzatori di un processo comunque già avanzato, la sostanziale insostenibilità del debito e dei costi della macchina pubblica in uno scenario di sostanziale stagnazione economica. Dai tagli lineari del ministro Tremonti all’austerity imposta del governo Monti per “raffreddare” gli spread fino ad oggi, le priorità finanziarie hanno messo nell’angolo le politiche sanitarie.
L’ultimo Patto della Salute è stato siglato il 10 luglio del 2014, ancora una volta si era parlato di evitare i tagli lineari e stanziare negli anni importi lievemente crescenti, ma nei fatti accade che i 115 miliardi previsti per il 2016 sono diventati 111 nella Legge di Stabilità per il 2016 licenziata dal governo il 22 dicembre scorso.
Concludendo l’analisi storica, mi risulta assai difficile immaginare scenari di miglioramento per la Sanità Pubblica italiana. La Generazione dell’ultimo baby boom nei prossimi dieci anni entrerà nella terza età e questo comporterà, alla luce dei protocolli di cura standard, una ulteriore impennata dei costi. Il debito pubblico non accenna a calare e la macchina burocratica italiana continua ad essere sprecona e a macinare deficit. La capacità del contribuente italiano (anche non volendo denunciare l’immoralità della vessazione) di sostenere questo carrozzone è al capolinea.
La crisi della sanità pubblica italiana non sorprende un liberale come me, che nutre assai poca fiducia nella capacità dello Stato di allocare risorse e perseguire efficienza. Se alle già difficilmente sostenibili spese per erogare un servizio decente si aggiunge la fisiologica quota di spesa politica e clientelare, che sempre presenta il suo conto quando di mezzo c’è la mano pubblica, diventa abbastanza chiaro che l’unico epilogo possibile è il default della sanità. Ogni volta che leggo una circolare della Federfarma sulla spesa farmaceutica o sui diversi aspetti della mia professione sempre più burocratica e cervellotica, mi torna in mente la feroce ironia della frase di Thomas Sowell “è sorprendente come le persone che credono che noi non possiamo permetterci di pagare per medici, ospedali e medicine poi credano che possiamo permetterci di pagare per medici, ospedali, medicine e la burocrazia statale per gestirle “.
Continua..
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4) La Repubblica, il trionfo dell’ideologia