Le leggi che rendono sicura la proprietà rappresentano il più nobile trionfo dell’umanità su se stessa. È questo diritto che ha vinto la naturale avversione al lavoro e dato all’uomo il dominio sulla terra; che ha posto fine alla vita migratoria delle nazioni; che ha generato l’amore per il proprio paese e la cura per la posterità»: quando all’inizio dell’Ottocento il filosofo inglese Jeremy Bentham scriveva queste parole, non faceva altro che esprimere la generale riverenza verso la proprietà della società del suo tempo.
Agli occhi degli europei la proprietà privata era “sacra” perché rientrava nell’ordine naturale delle cose, perché era stata consacrata da usi e consuetudini aventi millenni di storia, e perché aveva benedetto il vecchio continente portando ricchezza e prosperità. I viaggiatori dotati di maggior spirito di osservazione si erano infatti accorti da tempo che l’elemento cruciale che distingueva la libera, pluricentrica e creativa Europa dalle altre stagnanti civiltà “asiatiche” era la sicurezza della proprietà, perché nei dispotici imperi orientali (assiro-babilonese, egizio, cinese, indiano, persiano, tardo-romano, arabo-ottomano, incas, azteco) l’autorità centrale riduceva i sudditi alla assoluta soggezione controllando tutta la terra e concentrando nelle proprie mani ogni risorsa.
I primi fallimenti socialisti
Nei decenni successivi, tuttavia, la proprietà privata iniziò a perdere la sua aurea sacrale e ad essere contestata da una schiera di intellettuali socialisti, che spesso riprendevano antiche suggestioni collettiviste risalenti almeno a Platone. Uno dei più agguerriti era Pierre-Joseph Proudhon, autore del famoso motto “la proprietà è un furto!”. Lo slogan ebbe successo, ma si trattava probabilmente di un paradosso, dato che il concetto di furto presuppone proprio il concetto di proprietà che si vuole negare. Proudhon era sicuramente un confusionario, ma non certo un uomo privo di onestà intellettuale, tanto che nella sua opera postuma La teoria della proprietà cambiò completamente idea, individuando nella proprietà l’unico baluardo contro il potere altrimenti irresistibile dello Stato.
Nella prima metà dell’Ottocento vi furono però anche degli autori socialisti che non si accontentarono di scrivere saggi contro la proprietà privata, ma che cercarono di mettere in pratica le proprie idee. Nel 1833 sorse il primo dei falansteri, le perfette comunità socialiste ideate da Charles Fourier nei più precisi dettagli (dovevano contenere esattamente 1620 persone, non una di più non una di meno), che ebbero breve durata per la loro palese bizzarria. Più prolungata fu la sperimentazione promossa dal socialista inglese Robert Owen, grazie alle risorse finanziarie di cui disponeva. Owen, infatti, aveva fatto fortuna come industriale tessile grazie alle opportunità offerte da una società basata sulla proprietà privata, ma perse tutta la sua ricchezza nel tentativo di edificare una società senza questo istituto. La comunità socialista più nota, New Harmony, da lui fondata negli Stati Uniti nel 1825, rimase in vita solo fino al 1827, mentre la maggior parte delle altre comunità owenite in Inghilterra e USA fallirono in tempi ancor più brevi.
I motivi dell’insuccesso erano sempre gli stessi: dato che in queste comunità tutti venivano remunerati allo stesso modo indipendentemente dal lavoro svolto, i membri più efficienti e operosi si stancavano ben presto di dover faticare a vantaggio dei furbi e dei fannulloni. Dopo poco chiedevano indietro la propria quota e lasciavano la comunità, che, popolata solo elementi parassitari e inadatti al lavoro, tirava avanti producendo pochissimo fino a quando il munifico fondatore era disposto a mantenerla di tasca sua. Malgrado i continui fallimenti, Owen rimase testardamente convinto fino all’ultimo della necessità di abolire la proprietà privata. Gli si deve però riconoscere il merito, più unico che raro tra i teorici del socialismo, di aver cercato di instaurare il socialismo a proprie spese, e non con i soldi altrui.
I problemi delle comunità socialiste volontarie di Owen o Fourier erano ben noti a Karl Marx e Friedrich Engels, che li deridevano e chiamavano sprezzantemente “socialisti utopisti”. Marx ed Engels, come risulta da un loro scambio epistolare, avevano anche individuato la causa del dispotismo asiatico nella “assenza della proprietà privata”, che è “la chiave di tutto l’Oriente”. Pur sapendo tutto questo non esitarono a scrivere, nel Manifesto del partito comunista uscito nel 1848, che «la teoria dei comunisti può essere riassunta in una sola frase: abolizione della proprietà privata». Poiché giudicavano impossibile il raggiungimento di questo obiettivo per via pacifica, i due padri fondatori del “socialismo scientifico” auspicavano il ricorso alla coercizione e alla decisa concentrazione del potere nelle mani dello Stato.
La strada diretta verso il Gulag
Seguendo queste prescrizioni, i bolscevichi che presero il potere in Russia dopo il 1917 si avventurarono nell’abolizione per decreto della proprietà privata senza aver la minima idea delle immense difficoltà che sarebbero insorte. Tra repressioni, terrore di massa, caos economico e crollo della produzione, il “comunismo di guerra” degli anni di Lenin e la collettivizzazione delle terre voluta da Stalin costarono la vita a 15-20 venti milioni di contadini. Il folle esperimento sarebbe stato imitato nel corso del XX secolo da altri epigoni in tutto il mondo, provocando analoghe catastrofi umane e materiali: la politica di comunismo integrale delle campagne inaugurata da Mao alla fine degli anni Cinquanta con il pomposo nome di “Grande Balzo in Avanti” provocò la più terribile carestia della storia, che si tradusse in un salto nella tomba per circa 30 milioni di cinesi; milioni di morti dovuti alle repressioni e alle carestie accompagnarono la collettivizzazione delle campagne anche in Corea del Nord, nella Cambogia dei khmer rossi e nell’Etiopia di Menghistu.
Il problema fondamentale è che il concetto di “proprietà pubblica” o “collettiva” nasconde un imbroglio semantico, dato che “pubblico” e “collettivo” sono concetti astratti, o metafore, e non esistono in realtà. Solo gli individui vivono, pensano, agiscono, possiedono e hanno bisogni. Dato che in ultima analisi sono sempre gli individui singoli ad appropriarsi di qualcosa, diceva l’economista libertarian Murray N. Rothbard, la proprietà pubblica non esiste: tutta la proprietà è sempre e solo privata. Aldilà delle denominazioni formali, scarsamente rilevanti, proprietario di un bene è colui che decide sui modi di utilizzazione e che ne fa propri i frutti.
I beni in “proprietà pubblica” sono allora, di fatto, in proprietà privata della classe politico-burocratica, che decide come usarli e che si appropria dei benefici della loro amministrazione sotto forma di stipendi, poltrone, prebende. Nei regimi socialisti, infatti, gli abitanti non erano proprietari di tutto, ma proprietari di niente: i veri proprietari delle ricchezze del paese erano i membri della nomenklatura. Anche nei nostri sistemi ad economia mista, il fatto che nessuno possa vendere la propria “quota” delle ferrovie statali, delle aziende sanitarie o della scuola pubblica, né decidere come usarla, dimostra che in verità il cittadino è un proprietario nominale, con il solo dovere di pagare i debiti di gestione accumulati dai membri della classe politico-burocratica, che sono i reali proprietari della cosa pubblica.
In quest’ottica di conflitto tra classi politiche e classi produttive private si spiegano le guerre sanguinose che i comunisti, ogni volta che hanno preso il potere, hanno scatenato contro i contadini, i quali nei paesi non industrializzati costituiscono la stragrande maggioranza dei ceti produttivi. L’obiettivo della “collettivizzazione” era quello di sottrarre la proprietà delle ricchezze ai produttori e ai legittimi proprietari, per trasferirla alla “nuova classe” parassitaria dei rivoluzionari di professione.
Proprietà privata, sinonimo di civiltà
Se l’abolizione forzosa della proprietà privata ha portato direttamente al totalitarismo e al gulag, scarsa fortuna hanno avuto anche i tentativi novecenteschi di socialismo volontario. I kibbutz israeliani, a lungo magnificati come esempi di socialismo funzionante, sono ormai entrati in una crisi irreparabile. Il filosofo Robert Nozick ha detto che queste comuni rappresentano “il test all’acido” sulla desiderabilità del socialismo: ebbene, pur nelle condizioni più favorevoli, mai oltre il 10 percento della popolazione israeliana ha scelto di vivere nel collettivismo dei kibbutz, e attualmente non supera il 3 percento. I kibbutz hanno accumulato debiti per miliardi di dollari, e oggi sopravvivono quasi esclusivamente grazie al sovvenzionamento statale. Questo fatto invalida l’esperimento, dato che in pratica l’esistenza dei kibbutz dipende dalle risorse prodotte nel settore privato circostante.
Oggi i problemi legati al mancato rispetto dei diritti di proprietà continuano ad essere drammaticamente evidenti nel degrado ecologico che caratterizza tutti i beni collettivi privi di proprietari (mari, laghi, fiumi, spiagge, boschi, foreste, animali allo stato selvaggio); così come nel sottosviluppo economico in cui si sono arenati i paesi del terzo mondo, come spiega Hernando de Soto nel libro Il mistero del capitale. Se l’esperienza storica potesse insegnarci qualcosa, ha scritto il grande economista austriaco Ludwig von Mises, sarebbe che la proprietà privata è inestricabilmente connessa alla civiltà.
Purtroppo sono ancora molti quelli che rifiutano questa evidenza, a partire dal papa Francesco I, che nella sua enciclica Laudato si’, allontanandosi da una tradizione cattolica che annovera San Tommaso, Leone XIII e Giovanni Paolo II, ha messo sotto accusa la proprietà privata. La tradizione cristiana, scrive il Papa, «non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile» quel diritto ma «ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata». Eppure la storia ci insegna che l’abolizione della proprietà privata è stata un’utopia rovinosa, e che ogni tentativo collettivista, da Fourier a Stalin, è finito in farsa o in tragedia.
(Uscito inizialmente su Il Miglioverde, agosto 2015)