“Si tratta di teatro filmato” dicono. “Unità aristotelica di tempo, luogo e azione” certamente. Che Sidney Lumet sapesse quel che faceva, non c’è dubbio. che questo sia teatro piuttosto che cinema, è invece molto dubbio.
Twelve Angry Men (questo il vero titolo del film, Dodici incazzati) comincia in un’aula di tribunale, dove il giudice informa la giuria che il processo per omicidio di primo grado a carico di un ragazzo accusato di avere ucciso il padre ha come esito la sedia elettrica.La giuria si riunisce in una sala, ciascuno ha la sua sedia. Undici sono convinti della colpevolezza. Solo uno lo considera innocente o almeno nutre un ragionevole dubbio. Trattandosi di una condanna a morte devono raggiungere l’unanimità.
L’uomo, con eloquenza e ragione, smonterà progressivamente le tesi degli altri. Con emozione vediamo i dubbiosi diventare prima 3, poi 6, poi 9 finché ne rimane uno solo, imperterrito, fino a che crolla anche lui. Il verdetto sarà di innocenza a ragione di un ragionevole dubbio che impedisce di considerarlo colpevole.
Il film è di una bellezza primordiale.
La macchina da presa, mano a mano che il film progredisce, si avvicina sempre di più verso i dodici uomini: dapprima Lumet sceglie il grandangoli, fino ad arrivare alle ultime scene con la cinepresa vicina ai protagonisti, a catturare gli occhi e gli sguardi.
E’ una giornata caldissima, il condizionatore non funziona. La stanza progressivamente sembra diventare sempre più stretta, soffocante. I dialoghi diventano incalzanti, la logica ferrea del ragionevole dubbio non molla per un istante fino a vincere sul pregiudizio.
Dei personaggi non viene svelato quasi nulla. Dopotutto non importa molto cosa facciano nel privato questi cittadini qualunque. Tutti e dodici sono sullo stesso piano così come non vi sono attori protagonisti o comparse: la camera è molto attenta a tutti e dodici i volti, i primi piani non mancano. Non ci sono macchiette. L’interesse è esclusivamente il vedere come questi uomini interagiscono fra loro e a come si sviluppa la discussione. Ma non è un interesse astratto, non c’è alcun compiacimento del regista che anzi è calato nella situazione, pienamente coinvolto: la camera non lascia mai quei dodici uomini, anzi li avvolge in fluidi piani sequenza, li scruta dagli angoli della stanza, li appaia, li separa e infine passa ai dettagli, li analizza, li svela e li rivela.
E nemmeno c’è pietà: il tormento interiore è evidente nella claustrofobia della piccola stanza soffocata dal caldo e si scioglie al momento della decisione finale con una pioggia liberatrice. Anche il condizionatore inizia a funzionare, ma solo dopo che il verdetto d’innocenza è stato deciso.
E la retorica, il senso della parola, la necessità, la spettacolarità e la bellezza della parola. In un film composto unicamente di parole non c’è mai un senso di finzione nei dialoghi. La sceneggiatura procede a orologeria con un senso perfetto del tempo.
Abbiamo già in altre occasioni ammirato la retorica quando è somministrata con polso fermo, cioè quando non è al servizio di emozioni purchessia.
Qui abbiamo l’impegno civile, il tema della pena di morte, trattato nel modo più stringente, quello del legittimo dubbio. Mai viene detto che l’imputato è innocente, nemmeno dal primo giurato, quello appunto dubbioso: si dice che non esiste la certezza della colpevolezza e quindi…
Opera prima dell’autore di Quel pomeriggio di un giorno da cani. Con questo si è detto tutto.