Inalienabilità e Pena

LA PENA “GIUSTA”

Il problema.

Risolto il problema giuridico, cioè ciò che è giusto e sbagliato nelle relazioni umane, si manifesta quello sanzionatorio. Come si definisce “giusta” una pena? E quanto una pena pecuniaria o detentiva può essere compatibile con il concetto di inalienabilità del diritto naturale?

L’impostazione corretta del significato di sanzione imposta tutto il giudizio. Pensiamo ad esempio alla follia della “responsabilità in solido” della procedura civile italiana. Pensiamo a quanto una stessa ammenda possa essere inaffrontabile per un povero quanto insignificante per un ricco. Pensiamo al concetto di compensare le vittime di un sopruso esclusivamente con un sentimento di riuscita vendetta (cioè quella della detenzione dell’autore). Allora, qual è la corretta definizione di pena, o più genericamente di sanzione, che ne impedisca fraintendimenti così macroscopici?

Infine, quali sono gli esempi storici, e cosa ne hanno scritto i filosofi liberali classici?

Premessa.

La trattazione non riguarda la teoria della pena nel diritto italiano, né in qualunque altra impostazione giuspositivista. Il fine del giuspositivismo è essenzialmente differente (l’efficacia, anziché la giustizia morale) ed anche il lessico utilizzato (intimidazione, retribuzione, afflittività etc.) è molto diverso.

I più noti esponenti del liberalismo classico che si sono occupati del problema della pena in ambito giusnaturalistico furono nell’illuminismo Cesare Beccaria e Pietro Verri. L’illuminismo è stato poi rimpiazzato da ere filosofiche opposte: prima dall’idealismo, poi dal positivismo, da materialismo, comunitarimo, neomarxismo, costruttivismo, neo modernismo… come noto “L’uomo talvolta inciampa nella Verità. Ma poi si alza e continua per la sua strada…”. Più attuali esponenti del giusnaturalismo sono Popper, Leoni, Antiseri, John Rawls (A Theory of Justuice), Michael Sandel … ma il diritto positivo ha cancellato ogni traccia di coerenza morale nei sistemi giuridici contemporanei, per cui il dibattito si è orientato alla correzione del disastro esistente, anziché a rifondarne le basi.

Tornando al pensiero giusnaturalista, per questo qualunque pena o sanzione è scomponibile in due nature: rimborso (di cui fa parte implicita il risarcimento) e deterrenza.

Prima di analizzarle singolarmente, e per comprendere la coerenza con il principio di inalienabilità dei diritti naturali, richiamiamo la definizione più generica del diritto naturale:

“Ogni individuo ha diritto alla vita, intesa sia come sopravvivenza che come autorealizzazione. Questo diritto finisce laddove inizia il pari diritto altrui.”

Il rimborso del danno. Anche esplicando il sacrosanto diritto di condurre la propria vita come si vuole, è normale incontrare ostacoli e commettere errori. Fa parte della libertà. Laddove il sistema giuridico si manifesta principalmente nel non danneggiare il prossimo, una sua violazione comporterà il rimborso del danno causato ([1]). Sia che il danno sia stato commesso di proposito, che per distrazione o errore. Fin qui, non si incontrano incoerenze con l’inviolabilità dei diritti.

Altra questione inerente il rimborso riguarda il suo valore nel caso di danni alla persona. La tradizione giurisprudenziale è però abbastanza consolidata su questo tema. L’importante è mantenere l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Il cosiddetto “guidrigildo” dei popoli germanici, nonché le analoghe valorizzazioni nel corso della storia vengono giustamente criticate per via della disparità in base al censo, allo status, alla razza, alla religione, al sesso del danneggiato ([2]).

Un problema più complesso nasce quando non si hanno i mezzi per il rimborso. Se ne tratta più avanti.

Il risarcimento delle spese. Nel caso in cui il consenso al rimborso manchi, l’autorità deve intervenire con attività varie, da quella eventuale di polizia a quelle giudiziarie. Avendo causato queste spese, il responsabile sarà in coerenza tenuto a pagarle. Non avendole causate, ovvero laddove sia semplicemente dubbia la quantificazione e la distribuzione delle responsabilità (il caso della maggior parte delle cause civili), allora le spese dovrebbero essere a carico della comunità, che infatti paga le imposte principalmente al fine di garantire la giustizia.

La deterrenza.

Nei paesi in cui vengono impiegate le giurie anche nelle cause civili, la cosiddetta “quota punitiva” è generalmente loro appannaggio. In Italia invece… in nota, per non divagare ([3]).

Quando va applicata? Sicuramente quando la volontà di causare il danno (dolo) è assodata.

Ma vi sono casi in cui le conseguenze della violazione possono essere così gravi, anche solo in potenza, che la deterrenza è necessaria per aumentare l’attenzione sulla violazione. Come esempio lampante, tutte le violazioni stradali.

Il problema storico della quota di deterrenza è che necessita di valutazione individuale. Infatti, una somma che può essere una deterrenza per qualcuno, per altri può essere insignificante. È questo un concetto in antitesi con quello sacro di isonomia della legge. A complicare le cose, può risultare che un certo reato possa essere molto diffuso e rendere difficile la vita dei cittadini, mentre altri di pari valore no. E questo può essere vero in un certo periodo storico, ma non in altri ([4]). Ma anche per lo stesso individuo, la stessa violazione potrebbe necessitare di due quote di deterrenza differenti (ad esempio, per recidiva).

Cosa ci vorrebbe, quindi, per determinare una quota di deterrenza in modo razionale e ponderato? quattro cose: il solito riferimento giurisprudenziale di partenza (cioè le sentenze sui casi simili), le indicazioni dell’autorità pubblica locale sulla diffusione e l’andamento della violazione/reato, il curriculum sanzionatorio del responsabile, ma anche il suo il reddito. Ed ogni sentenza dovrebbe presentare il calcolo esatto di ogni quota in base al parametro citato. In questo modo, si differenzia la quota ma non il principio di isonomia, ostacolando al contempo la possibilità di arbitrio del giudice. Non vi sono altre soluzioni.

La destinazione della quota deterrente.

Beccaria insiste su questo aspetto: chi emette l’ammenda non deve trarne un vantaggio. Sia a livello personale che a livello di ente. Altrimenti, ne risulterebbero incoraggiati gli abusi e le vessazioni. Ad esempio, le contravvenzioni stradali non dovrebbero contribuire al reddito di chi le eleva. E neanche al bilancio dell’ente che le sovrintende.

La detenzione. Perché? Come nasce? Come si giustifica? Semplice: si giustifica quando la somma delle tre componenti sopra non può essere immediatamente pagata. Ma con certe caratteristiche. Sorgono infatti alcuni quesiti:

– se il responsabile è ricco, non va in carcere anche a fronte di gravi delitti? No. È stato spiegato che la quota di deterrenza è lì apposta.

– Ma quando in condizioni di detenzione? Risposta: quando il sanzionato potrebbe non essere intenzionato a pagarla ([5]).

– E in che caso si valuta che questi potrebbe non essere incline a pagarla?  Quando l’intenzione di danneggiare il prossimo, e di conseguenza di non rimborsarlo, è chiara e determinata. Ad esempio se siamo in caso di dolo, cioè ciò che determina il “reato penale” (felony). Truffa, furto, rapina, aggressione, rapimento etc.

Fin qui tutto chiaro. La difficoltà vera sta nella redditività della detenzione, al fine dei vari rimborsi. Ma poiché questa dipende dalla funzione pubblica (così come, peraltro, la prevenzione dei soprusi), la quota di rimborso andrebbe anticipata dall’autorità pubblica alle vittime del sopruso.

Detenzione ed attività remunerative.

La detenzione fine a sé stessa non significa semplicemente nulla. È solo una punizione, eseguita tramite l’alienazione di un diritto naturale, proprio perché priva di motivo né scopo. Al contrario, si susseguono le richieste degli psicologi per re-introdurre il lavoro in carcere. Anche perché, se torniamo all’origine del diritto naturale, cioè la necessità di dare alla propria vita uno scopo (sia nel brevissimo che nel lungo periodo), ricadiamo in pieno in questo ambito.

In realtà, prima dell’unificazione, in Italia il lavoro in carcere era molto diffuso. Beccaria ne parla come se fosse assodato e ne deduce uno dei motivi per la convenienza della detenzione rispetto alla pena di morte. Perché ora è così poco diffuso? Semplice. In primo luogo per incapacità e pigrizia. Non è mica vietato. Negli Usa ed in altri sistemi giuridici è molto più diffuso, ma non è legato concettualmente alla quantificazione della pena di cui sopra. Comporta magari una riduzione della pena detentiva, ma in modo arbitrario. E non è un obbligo per lo stato. Insomma, non va ancora bene.

In secondo luogo, vi è un’altra difficoltà tipicamente italiana al lavoro in carcere. Cioè che la parola lavoro è collegata automaticamente a: imposte, contributi, contratti nazionali, sindacati, corsi obbligatori, insomma tutti quegli ostacoli che conosciamo. Ma ancora, bisogna rifarsi alle definizioni. Per semplicità, ho usato sempre la parola lavoro, che è una attività ai fini remunerativi. Ma in questo caso, nessuno viene remunerato. Si tratta di risarcimenti. Neanche le assicurazioni pagano l’IVA sui risarcimenti dei danni. Non si deve applicare il diritto del lavoro, né i contratti nazionali. È necessario considerarla attività risarcitoria. Una categoria di attività non ancora contemplata.

L’ultima difficoltà concerne il datore di lavoro (oops… attività risarcitoria). Se fosse pubblico, lo sappiamo per esperienza se non per filosofia: saremmo già fritti. Altro che remunerazione o risarcimento. L’autorità pubblica non deve gestire attività economiche. Il suo mestiere, quello che sa fare bene e per cui è nata, è sorvegliare. Sarà il mercato a fare delle proposte economiche per l’utilizzo di manodopera, se non i detenuti stessi ([6]). L’autorità, deve solo sorvegliare. Gli uni e gli altri. Sarebbe già sufficiente.

 

La pena di morte.

Beccaria, nel suo “dei delitti e delle pene” la annienta confrontandola con le funzioni di rimborso e di deterrenza della pena detentiva. Con questa logica, convinse i monarchi di mezzo mondo ad abolirla. Va da sé che togliendo alla detenzione le funzioni di rimborso e deterrenza, scompare il piedistallo logico su cui si è basata l’abolizione della pena di morte.

Ma sussistono dei casi in cui risulta necessaria, o addirittura indispensabile?

Sì. Anche se probabilmente non è classificabile come sanzione, ma come difesa. È un caso che fa parte solo dell’epoca moderna, in cui organizzazioni terroristiche minacciano la popolazione civile di uno stato che detiene i suoi adepti. È successo varie volte che terroristi assassini vengano liberati a fronte di minacce. In Italia, sono noti i casi dell’Achille Lauro e dei due attentati a Fiumicino. Una società non può rischiare la vita dei propri cittadini per mantenere in vita un assassino che peraltro considera sé stesso un nemico in guerra. Un governo che lo facesse potrebbe causare la morte di cittadini innocenti come è già successo in questo paese. Peraltro, se un terrorista prende la decisione liberamente di affrontare la morte per le sue cause più o meno assurde, ebbene, rispettiamo pure questa sua decisione. Ci dispiacerà per la questione dei rimborsi e della minor deterrenza, ma non si può per questo mettere in pericolo la vita dei cittadini. D’altronde, non si tratta in questo caso di decidere una pena, bensì di difendere i propri cittadini. Sono due argomenti differenti.

 

Conclusione

La definizione di pena in sede costituzionale è fondamentale per evitare la deriva giudiziaria, la disparità e la contraddizione nelle sentenze e nelle misure sanzionatorie.

Ma l’unico modo che garantisce coerenza tra diritto naturale e sanzione è restituire sia alle ammende che alle pene detentive le funzioni di rimborso, risarcimento e deterrenza.

Laddove quest’ultima, anche se partendo dalle necessarie basi giurisprudenziali, andrebbe rigorosamente calcolata, individualmente e contestualmente, in base a precisi parametri.

[1] Il danno può anche essere subito da un’intera comunità, non solo da un individuo. Ad esempio, i furti di biciclette non danneggiano solo chi ha subito il furto, ma anche tutti i cittadini, che sono costretti a chiudere il loro mezzo, ad utilizzare solo mezzi di scarsa qualità, o a limitare il suo utilizzo. Ma questo aspetto del danno sarebbe meglio indirizzato dalla quota, trattata oltre, quantificata ai fini di  deterrenza. E che, infatti, non è indirizzata verso la vittima.

[2] Ad esempio, per i longobardi un uomo valeva 900 solidi, una donna 1.200.

[3] In Italia, al contrario viene insegnato in alcune facoltà di Diritto (Bologna) che la “deterrenza” non fa più parte delle funzioni sanzionatorie. Il ché, è già una contraddizione in termini. Inoltre, è un concetto che non sta scritto da nessuna parte. Il luminare accademico allora spiega che in Costituzione c’è scritto che la pena deve avere funzione rieducativa. Ma questo non è in contraddizione con la funzione di deterrenza. Anzi. Peraltro, basta pensare ad una contravvenzione qualunque, ed eccola lì la deterrenza. Ma a volte il titolo accademico offusca la vista e la ragione…

[4] Ad esempio, quando venivano rubati gli stereo dalle auto (ora non più). Le biciclette, solo in certe città. Etc.

[5] Nel corso della storia, alcuni sistemi giuridici prevedevano che l’insufficiente pagamento delle suddette quote venisse compensato in “anni di servitù” presso il danneggiato.

[6] Ad esempio, un avvocato dovrebbe potrebbe svolgere la sua professione anche in carcere. Anzi, quale luogo migliore?

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