di Alberto Piovani
Winston Churchill diceva che la democrazia è la peggiore forma di governo eccezion fatta per tutte le altre sperimentate finora.
Del resto già nel IV secolo A.C. alcuni grandi pensatori ateniesi avevano messo in guardia dal pericolo che la democrazia diventasse una dittatura della maggioranza.
In tempi più recenti i costituzionalisti liberali del XVIII secolo cercarono di ridurre il rischio di derive autoritarie delle democrazie moderne suddividendo il potere tra più istituzioni, creando un sistema di pesi e contrappesi, mettendo limiti alla possibilità dei governi di invadere la sfera individuale dei cittadini.
Guardando a come vanno le cose nelle democrazie occidentali viene da pensare che l’insieme di queste misure non abbia funzionato.
Se guardiamo all’Italia, in particolare, viene da mettersi le mani nei capelli. Oltre il 50% del PIL è sotto il controllo della “mano pubblica” . Il fisco, tramite le sue agenzie, ha più potere della STASI nella vecchia DDR. Quando si inverte l’onere della prova, si ha potere illimitato di investigare sui movimenti finanziari dei contribuenti, si applica un terzo della sanzione ancor prima di passare davanti ad un giudice, non si è più nello Stato di diritto, ma si è in piena tirannia fiscale.
E cosa dire poi della produzione continua di nuove leggi, direttive, interpretazioni e regolamenti che tendono a normare ogni aspetto della vita dei cittadini?
Siamo arrivati al punto che la sovrapposizione di norme spesso in contraddizione tra loro ha reso impossibile per il cittadino onesto essere in regola, esponendolo all’arbitrio dell’interpretazione sempre più discrezionale dei magistrati.
Dato per assodato che le cose non sono andate come avremmo voluto, cosa fare per provare a migliorare la qualità della nostra democrazia?
Forse si potrebbe cominciare dall’elettorato attivo.
Come dimostrato anche dalla teoria della Public choice le forze politiche hanno solo vantaggi nel segmentare l’elettorato in gruppi d’interesse da accontentare con provvedimenti di spesa ad hoc. Colla conseguenza che i privilegi di un gruppo sono pagati dalle tasse della collettività, in un gioco perverso dove ogni contribuente è beneficiato in quanto appartenente ad uno o più di questi gruppi, ma è anche contemporaneamente finanziatore dei molti privilegi altrui.
Come porre fine a questo meccanismo infernale che pare essere una cornucopia di risorse per la politica?
Un rimedio potrebbe essere rappresentato dallo scompaginamento dei gruppi d’interesse. Perché non togliere il voto a chi non contribuisce a pagare i costi del sistema e ne ricava solo benefici? Se stai ricevendo un servizio per il quale non paghi, non hai diritto a sindacarne la qualità e ad influenzarne le caratteristiche.
Una prima categoria esclusa dal voto quindi potrebbe essere quella dei dipendenti pubblici, poiché pagano tasse solo figurative che altro non sono che una riduzione del costo dei loro servizi. Se, però, consideriamo che buona parte di loro (medici, infermieri, insegnanti, poliziotti, magistrati) forniscono servizi che hanno un vero valore economico, non è giusto considerarli solo consumatori di risorse e quindi non si può applicare il principio di cui sopra.
Un’altra categoria da prendere in considerazione è quella dei pensionati, ma in questo caso bisogna distinguere tra pensionati retributivi che non hanno versato, se non in parte, ciò che ricevono come trattamento previdenziale e pensionati contributivi che verrebbero ingiustamente puniti.
Forse un altro criterio da usare come discriminante è costituito dal fatto che chi prende ( o, meglio, contribuisce a prendere attraverso il voto) certe decisioni non ne pagherà le conseguenze.
Mi riferisco, in particolare, agli anziani.
E qui viene in ballo la questione delle questioni, la prova plastica della cattiva qualità della democrazia italiana: l’enorme debito pubblico.
Non è profondamente immorale che una, forse due, generazioni di italiani abbia vissuto al di sopra dei propri mezzi lasciando il conto da pagare a figli e nipoti?
E chi sono al giorno d’oggi i più strenui difensori dello status quo, della spesa in deficit, dei cosiddetti diritti acquisiti?
Chi è più preoccupato per un possibile default del debito pubblico italiano: un ventenne o un ottantenne?
Quali sono i due maggiori capitoli della spesa pubblica? Pensioni e sanità.
Chi ha più interesse a ridurli per rendere la spesa sostenibile nel lungo periodo, i giovani o gli anziani?
Perché non porre un limite al diritto di voto basato sull’ età, ad esempio 75 anni? Non esiste già un limite inferiore a 18 anni per acquisire questo diritto? Bene, a 75 anni il diritto scade.
E non vale obiettare che così facendo, il carico fiscale si sposterebbe dai giovani agli anziani poiché nessuno più tutelerebbe gli ultra settantacinquenni. Non dimenticate, infatti, che i giovani d’oggi saranno gli anziani di domani, mentre gli anziani d’oggi non saranno, purtroppo, mai più giovani.
Vincenzo
12 Lug 2017Non condivisibile dal punto di vista umano, sociale, e logico oltreché della giustizia e libertà.
guido cacciari
7 Ott 2018Bravo Alberto.
Lapalissiano e logico, dal punto di vista umano, sociale, economico e morale.
Devo solo aggiungere l’approfondimento “liberalismo ed assistenza sociale” alla voce liberalismo su wikipedia per richiamarla tutte le volte che un Vincenzo qualunque equivoca libertà e diritto con assenza di solidarietà.