Pacta sunt servanda e il “diritto” di sciopero

PACTA SUNT SERVANDA E IL “DIRITTO” DI  SCIOPERO

“I patti devono essere rispettati”. Ma è proprio il caso di scrivere una tale ovvietà in Costituzione? Non è già ovvio che è compito dell’autorità pubblica farli rispettare?

No. Non è ovvio ([1]).

E’ così poco ovvio che la Repubblica stessa propone accordi e poi li viola come niente fosse. L’esempio più eclatante ci è stato offerto dal governo Monti con il raddoppio delle sanzioni per il “rientro dei capitali” pattuito con il governo Berlusconi di due anni prima. Chi aveva pagato una certa sanzione per recuperare i propri capitali pensando di essere a posto, dopo due anni si vide recapitare un’altra missiva con scritto: “Ti abbiamo preso in giro. Ora ce ne dai ancora”.

Voilà. Ecco in scena: “Morte del Diritto e glorioso trionfo del Sopruso“.

D’altra parte, anche i padri della Costituzione Federale USA (art.1, sec.9) sentirono la necessità di impedire la produzione di norme retroattive, dette “bill of atteinder” ([2]).

E’ perciò necessario introdurre anche nella nostra Costituzione sia la funzione pubblica di far rispettare i contratti, sia il divieto del caso particolare dell’emissione di provvedimenti retroattivi.

Le conseguenze di tale principio sarebbe però fatali per una particolare violazione contrattuale che un altro articolo della Costituzione legittima e difende: lo sciopero.

1          Lo sciopero

Cos’è lo “sciopero”?

Lo sciopero dovrebbe essere una particolare violazione contrattuale che consiste nell’astensione dal lavoro, in segno di protesta nei confronti dell’imprenditore.

Il lavoratore è tutelato contro il licenziamento, a seguito di questa particolare violazione, in quanto è considerato la “parte debole” del rapporto contrattuale.

Quindi, affinché questa violazione contrattuale sia lecita, sarebbe necessario che:

– sussistano dei motivi di scontento del lavoratore nei confronti dell’impresa. In particolare, si verifichino all’interno dell’impresa delle violazioni dei contratti o dei diritti generici degli individui che vi lavorano.

– il lavoratore sia effettivamente “parte debole”, ovvero manchino o siano “deboli” altre forme di tutela dei propri diritti contrattuali o generici.

Pensiamo ad esempio ad un sistema giuridico così complicato ed ostico come quello italiano. Effettivamente, prima di avere giustizia ne passa del tempo, e chissà se si avrà mai. Perciò, il ricorso allo sciopero di un gruppo di lavoratori ai fini di giustizia potrebbe anche essere giustificato.

Faccio notare che, viste queste premesse, nella maggior parte dei paesi gli scioperi dei dipendenti pubblici sono vietati. Sarebbe come se il sistema giuridico/amministrativo protestasse contro se stesso ([3]).

 

2          Lo sciopero in Italia

In Italia, però, lo sciopero è tutt’altra cosa.

Prima di tutto si tratta di una astensione dal lavoro organizzata da “associazioni di categoria” o “sindacati”. Che perciò, non può essere considerata “parte debole” nei confronti dell’imprenditore.

Inoltre non riguarda una singola impresa. Bensì, un’intero settore dell’economia.

Quali obiettivi si propone? Gli obiettivi non sono normati. Non c’è limite alla fantasia. Negli ultimi decenni, sono frequenti gli scioperi “contro la crisi”. Altre volte, sono indirizzati contro le politiche del governo.

Che c’entra l’impresa che subisce l’interruzione produttiva con tutto ciò? Niente. E i cittadini che subiscono la sospensione di servizi pubblici? Nulla.

In pratica, gli scioperi sono utilizzati da determinati partiti politici per fare pressioni su quelli al governo. Una specie di terrorismo legalizzato.

Ormai siamo assuefatti a tutto ciò. Ma se ci pensiamo un attimo, ci rendiamo conto che è palesemente assurdo. Ma come ci si è arrivati?

Ebbene, ci si è arrivati per la solita ragione: coloro che scrissero l’art. 40 della Costituzione che tratta il “diritto di sciopero” non avevano idea di quel che stavano facendo. Tant’è vero che l’articolo recita semplicemente: “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”.

Ebbene, le “leggi che lo regolano” sono state costituite per 50 anni da una sola: quella fascista che lo vietava. L’interpretazione giuridica, sin dall’inizio, fu semplicemente che i costituenti intendessero che il parlamento avrebbe emesso a breve delle leggi per la regolazione di tale “diritto”, e che avrebbero abrogato la proibizione fascista. Così non è stato. Perciò, gli scioperi sono stati fatti nella più completa libertà, in barba all’unica legge vigente, abrogata solo recentemente, che l’avrebbe negato.

E ancora oggi tali “leggi che lo regolano” non esistono.

Perché non si fanno? Per tre motivi. Il primo è culturale. La sacralità dello sciopero è ormai un dogma di tipo religioso. “O credo, o penso“. Nel secondo caso, sono una mosca bianca e tutte le altre mi guardano male.

Il secondo motivo è, ovviamente, politico. La rumba che farebbero i sindacati sulla regolamentazione del loro potere più grande sarebbe tale da far traballare un bel po’ quei fragilissimi piedistalli su cui si reggono i governi della Repubblica.

Ma il terzo è il più complicato. Le retribuzioni ed i trattamenti contributivi e fiscali dei lavoratori dipendenti non dipendono dal Diritto, dalla concorrenza e dal merito. Ma dalla “concertazione”. Ovvero dalla capacità del governo di mediare le pressione delle cosiddette “parti sociali”. Le quali sono rappresentate da una parte dai sindacati organizzati che fanno gli scioperi, dall’altra da associazioni industriali che non scioperano, ma intrallazzano e intrigano. A volte, come nel caso dei dipendenti pubblici e di altre categorie, la controparte neanche c’è. Può funzionare un sistema del genere? Conosciamo tutti la risposta.

3          La soluzione

La soluzione, ancora una volta, è costituzionale. Se si rendesse la Costituzione coercitiva, ovvero sanzionata la sua violazione, diventerebbe automaticamente l’arma giuridica più importante.

Basterebbe perciò esprimere nell’art. 40 i concetti già espressi a prefazione. Ad esempio:

“Lo sciopero consiste nell’astensione dal lavoro, al fine di protestare contro comportamenti della dirigenza imprenditoriale in violazione dei contratti o dei diritti individuali costituzionali.

Gli scioperanti sono tutelati se le motivazioni sono state espresse da formale esposto o denuncia al PM, e fino all’udienza fissata da quest’ultimo entro 10 giorni dal deposito“.

Fine degli scioperi “contro la crisi”. Inizio di una vera tutela dei lavoratori (ed anche dell’efficienza giudiziaria).

4          La serrata

Cos’è la serrata? E’ lo sciopero dell’imprenditore. E’ permesso? Certo, non è espressamente vietato. Ma nessuno ci ha mai provato. Perché? Per due motivi. Il primo è che è una violazione contrattuale che non è, al contrario dello sciopero, tutelata. Il secondo è che l’orientamento giurisprudenziale è tradizionalmente pro-lavoratore ed anti-imprenditore ([4]).

Anche qui è meglio chiarire. La serrata, al pari dello sciopero, può essere giustificata in casi di violazioni di diritto e di contratto. Perché anche gli imprenditori possono essere soggetti a violenze ed a ricatti. L’esempio più eclatante è quello dei gruppi mafiosi nel sud Italia ([5]). Lo Stato deve poter supportare l’imprenditore soggetto a soprusi da gruppi organizzati. Il PM può permettergli la chiusura temporanea finché la legalità non è stata ripristinata.

Ma questo va scritto. Perché altrimenti, purtroppo, è illegale. O soggetto alle stravaganze del PM di turno.

5          Ancora sui contratti

Parlando di contratti, vale la pena citare qui due mancanze, piccole ma clamorose, nella legislazione relativa. La prima è quello sulla dimensione dei caratteri. La seconda sulle clausole di significato ambiguo. Evochiamo a noi il buon senso dell’uomo comune ed imponiamo le ovvie soluzioni:

– dovrebbe essere nulla qualunque condizione contrattuale scritta con caratteri illeggibili per presbiti leggeri (-1,5);

– qualunque clausola di significato ambiguo dovrebbe essere da intendersi a favore del firmatario accettante (cioè: a sfavore di chi le ha scritte).

Ed ora, immaginiamo la semplice applicazione di tali regole di buon senso sui contratti assicurativi, su quelli telefonici, quelli bancari. Ma anche su quelli pubblici, come quelli previdenziali. Ed infine, considerando la Costituzione un “contratto sociale”, anche su quest’ultima, Due frasi semplici in Costituzione varrebbero più di 50 anni di legislazione ordinaria.

[1] Ci racconta Bruno Leoni, nel suo “la Libertà e la Legge”, che anche il Diritto Romano prevedeva un caso di violazione lecita di contratto: “Si tratta di un privilegio conferito alle donne dal “Senatum Consultum Velleianum“, un provvedimento decretato dal senato romano 19 secoli fa per autorizzare le donne a ritornare sulla propria parola ed in generale a rifiutare di mantenere certi impegni verso altri.” Tant’è vero che in Sud Africa, dove il diritto romano è tuttora fonte primaria della giurisprudenza locale, se si vuole acquistare un bene importante da una signora, ad esempio una proprietà immobiliare, è bene farsi firmare da questa la rinuncia al diritto di invocare il “Senatum Consultum Velleianum“.

[2] E questo, nonostante le istituzioni parlamentari britanniche, da cui quella americana deriva, fondino storicamente la loro supremazia su un famoso “bill of atteinder”, con cui il parlamento inglese condannò Lord Strafford, il braccio armato di re Carlo I Stuart.

[3] Questo principio sembra essere in contrasto con esempi storici gloriosi. Ad esempio, gli scioperi a Danzica nella Polonia di Walesa e Jaruselski. Ed altri casi rivoluzionari. Ma può una Costituzione legalizzare una rivoluzione contro se stessa? Ovviamente no. Ma come si vedrà, in una Costituzione basata sul senso comune non c’è alcun bisogno di vietare alcunché. Solo di difendere il diritto naturale.

[4] Testimonianza dell’avvocato N.C. Tribunale del Lavoro di Bologna. Un dipendente viene licenziato, per motivi ineccepibili. Bene. Dopo un anno, per far dispetto all’imprenditore, lo denuncia di averlo in realtà fatto lavorare in nero. Prove? Nessuna. Non ci sono versamenti bancari? Il PM ne deduce che, evidentemente, non è stato pagato. Qualcuno l’ha visto nei pressi della ditta? Nessuno. Vi sono testimoni? Nessuno. Conclusione: ha ragione lui, e l’imprenditore è costretto a pagare un anno di stipendi, contributi, imposte etc. oltre ad ammende, spese processuali etc. Perché? E’ spiegato in sentenza: perché la testimonianza del lavoratore, per il giudice del lavoro, vale di più di quella dell’imprenditore.

[5]  O altrove. Un film memorabile su un “sindacato mafioso” fu Fronte del Porto, con Marlon Brando.

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