QUESITI SULLA LIBERTA’ DI INSEGNAMENTO
Cos’è la libertà di insegnamento? Perché la Costituzione Italiana (art. 33) la garantisce? Ha dei limiti?
RISPOSTE
Cosa sia e perché esista si può solo immaginare. Forse l’articolo in questione voleva reagire alle censure del regime totalitario da cui la nazione era reduce. Forse era ispirato da vicende ancor più remote, quali quelle di Galileo, Bruno e Vanini.
Ma se è così, essa è fondata su un equivoco: una cosa è la libertà di opinione. Altra quella di insegnare.
L’idea che l’uomo, come individuo, necessiti assolutamente di insegnare è un po’ originale. Il diritto di imparare, si capisce. Ma di insegnare, neanche un po’.
Relativamente ai limiti di questa libertà garantita, l’art. 33 citato la limita alle arti e scienze. Poiché ambo i termini sono indefinibili, così lo diventano i limiti di tale “libertà”.
IL REATO DI PLAGIO
In realtà, al tempo della stesura della Costituzione, una sorta di limite esisteva. Si trattava del generico (troppo) reato di plagio.
Il termine “plagio” significa diverse cose. Nel diritto romano era la riduzione in schiavitù. In psicologia è l’assoggettamento psicologico di una persona ad un’altra, per via del diverso livello della personalità e di tecniche di convincimento. Il diritto italiano definiva in passato con il termine plagio due diversi reati: uno simile alla definizione testé fornita (art.603 cp); ed un altro consistente in una particolare forma di truffa (legge del’41 sul diritto d’autore).
Ora non più. Nel 1981, l’art. 603 c.p. è stato abolito dalla Corte Costituzionale perché mal scritto.
Eppure, è vero che sia possibile utilizzare tecniche psicologiche per ridurre persone di personalità più debole in proprio potere. Per convincerle delle peggio assurdità.
La cosa curiosa è che tale reato non è stato abolito dal fascismo, che di plagio delle giovani generazioni si è macchiato abbondantemente, ma dal nostro grazioso regime partitocratrico ([1]).
PLAGIO ED INSEGNAMENTO
Ebbene, il plagio psicologico delle giovani generazioni, inteso come insegnamento di opinioni come dati di fatto inopinabili, magari affiancate da giudizi morali, è sempre stato un strumento di controllo proprio dei regimi totalitari, tipicamente a base ideologica o religiosa ([2]).
Il fatto che l’utilizzo di tale strumento di sopruso sia stato disconosciuto come reato è sì grave, ma è anche l’occasione di re-istituirlo con una definizione più precisa di quella del vecchio articolo 603.
Le nostre istituzioni non includono, fortunatamente, un ministero della propaganda deputato specificatamente all’attività di plagio. Esiste però un ministero della pubblica istruzione, che ne ha in fondo gli stessi poteri per quanto concerne l’approvazione dei testi scolastici. In totale assenza di norme che ne prevengano la degenerazione.
Al contrario, è garantita proprio in Costituzione (art.33) la libertà di insegnamento ([3]). Equivalente, in assenza di limiti, al diritto di sparare al prossimo.
Eppure, possiamo condividere tutti il fatto che il giudizio definitivo di un insegnante, a cui il giovane studente riconosce una maggiore conoscenza ed esperienza, viene generalmente accettato come vero. E’ un potere non da poco. E chi difende lo studente?
Il problema, insomma, è che non esiste una norma deputata a difendere il giovane dal plagio educativo. A che forma di tutela può rifarsi il genitore o il preside o il provveditore scandalizzato da giudizi ideologici nei testi o nelle lezioni scolastiche? A nessuna. Al contrario, è l’insegnante che può sempre rifarsi all’art.33.
CONTRO IL REATO DI PLAGIO
Ma l’obiezione posta dagli appassionati di plagio ideologico contro l’istituzione del reato de quo è che questo sia inevitabile. Cioè, sarebbe inevitabile che chi insegna la Storia, il Diritto, le Arti e le altre cosiddette scienze sociali od umanistiche si possa astenere da spacciare sue opinioni personali come le uniche esistenti. O proprie interpretazioni di logiche causa-effetto come dati di fatto. O propri giudizi morali.
DIFESA DEL REATO DI PLAGIO
Ebbene, mi oppongo totalmente a tale tesi, propugnata per impedire l’istituzione del reato di plagio, nonché qualunque responsabilità dell’insegnante nei confronti della propria attività.
Non è vero che sia inevitabile spiegare teorie, in qualunque campo umanistico, senza spacciarle per univoche.
Non è vero che sia impossibile proporre tesi (filosofiche, politiche, artistiche etc) od interpretazioni (di logiche storiche, di riforme politico giuridiche, di intenti letterari, di significati artistici etc.) come opinioni anziché come dati di fatto.
Soprattutto, non è vero che sia impossibile astenersi da proporre i propri giudizi morali o di merito su episodi, personaggi o teorie.
E’ vero il contrario. Cioè che lo sforzo richiesto ad ogni insegnante sia quello di fornire ai futuri cittadini gli strumenti per formarsi dei propri giudizi, non quello di fornire a loro i propri. Il tempo più utilizzato dovrebbe essere il condizionale. Ed in questo orientamento, risultano particolarmente sbagliati i giudizi morali. Tra l’altro, il bello del giusnaturalismo (questo articolo è tratto pari-pari da un testo di filosofia del diritto giusnaturalista) consiste proprio nella spontaneità del giudizio morale ([4]). Il fatto che un insegnante, che gli studenti vedono come conoscitore molto più approfondito di loro sia nel campo specifico che, per questioni di età, nelle dinamiche sociali, fornisca un giudizio incondizionato e definitivo non può che condizionare il loro. Quindi, non deve accadere! ([5])
Attenzione: non è un problema di controllo dell’attività degli insegnanti. Ma quello di avere almeno un riferimento di diritto che difenda il giovane. A cui, a necessità, possano riferirsi od appellarsi genitori, scrittori di testi scolastici, e presidi. Ma anche gli stessi insegnanti.
CONCLUSIONE
è necessario istituire il reato di plagio educativo, definendolo in questo esatto modo:
L’insegnamento a cittadini minorenni
di opinioni prospettate come dati di fatto inopinabili,
oppure affiancate da giudizi morali,
è un reato ([6]) definito plagio educativo ([7]).
UN ESEMPIO: L’ORA DI RELIGIONE
Il laicissimo regime di Mussolini patteggiò il furto di sovranità e proprietà perpetrato nei confronti dello Stato Pontificio, che oggi chiamiamo Vaticano, con determinate condizioni di pace e rimborso. E questo, per uno stato laico, è normale. Ma tra queste condizioni vi fu anche l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche.
Ora, per uno Stato laico, che la religione non vuole neanche sapere che cosa sia, sembrerebbe una concessione un po’ strana.
Per conciliarla il laicismo politico, si dovrebbe interpretare come l’insegnamento di un tema che fa parte della cultura, ovvero dei modi di esprimersi nella società, il cui apprendimento è considerato un diritto garantito (cioè: fornito dalle Istituzioni) del giovane cittadino.
In altre parole, la religione ed i suoi testi, bene o male, sono uno dei mezzi di comunicazione tra individui, nonché fonti di incontro e scambio. Che lo Stato non se ne voglia occupare, è corretto. Ma che gli individui possano conoscerlo come mezzo di comunicazione, non può che conseguirne un arricchimento degli strumenti individuali per vivere in società.
Passiamo ora al concreto: come è possibile conciliare la definizione succitata di plagio educativo e l’ora di religione? Così com’è, no di certo. Perché gli insegnanti, sempre cattolici e scelti dall’autorità ecclesiastica, tentano coscientemente di attuare il plagio teorizzando la superiorità del loro credo.
La soluzione è una sola: basta che anche tale insegnamento sia soggetto al reato di plagio così come sopra definito. Divenendo necessariamente privo di giudizi morali, si arricchirebbe di confronti obiettivi tra le diverse religioni. E si trasformerebbe automaticamente in quella preziosa fonte culturale, o mezzo educativo, che avrebbe sempre dovuto essere.
GENERALIZZAZIONE: il Dritto all’informazione
Questo articolo rivolge l’attenzione sull’istruzione pubblica ed alle sue insidie. Ma questa non è la sola forma di informazione che può danneggiare gravemente il cittadino in assenza di sistemi giuridici di protezione.
Il Diritto all’informazione non suona familiare come altri (es: vita, libertà personale, proprietà …). Eppure, è naturale considerare immorale la truffa, ovvero il profitto basato su un difetto di informazione. Come è naturale cercare di istruire i propri figli sulle regole della società, i suoi usi, linguaggi, insidie e vantaggi. Se è vero che la società ha leggi che la regolano e strumenti per viverci, ne consegue la necessità di conoscerli. Così come appare necessario al cittadino sapere a chi sta affidando la difesa dei propri diritti individuali, e come costui si propone di farlo e quali sarebbero le alternative.
Cosa discenderebbe, quindi, dall’istituzione di un diritto all’informazione?
Diverse cose, tra cui:
– garanzia della completezza delle informazioni commerciali;
– informazione del cittadino sulle leggi e le formalità amministrative pubbliche;
– informazione del cittadino sull’attività politica in essere, e sulle diverse opinioni e giudizi inerenti;
– istruzione pubblica dei giovani cittadini, definita come sopra;
Ne conseguirebbe anche che la violazione, pubblica o privata, in relazione ai succitati diritti diventerebbe reato.
Ora non è così. Ora è semplicemente il caos. Non si sa cosa siano e perché debbano esistere pubblica istruzione, informazione, diffusione delle opinioni; non si sa quali obblighi abbiano i cittadini e la pubblica autorità su tali argomenti; non è chiaro quali mancanze siano reato e quali diritto. E per complicare il tutto, è stato malamente normato un diritto alla riservatezza, che per colmo di ignoranza è stata chiamata privacy, e che interferisce con la diffusione delle informazioni senza effettivamente difendere la riservatezza.
Ancora una volta, è necessaria la chiarezza delle definizioni e del senso comune, da porsi alla base del sistema giuridico e politico mediante chiare norme costituzionali. Le uniche in grado di cancellare in un colpo solo, e con poche parole, l’effetto giuridico di centinaia di articoli di legge privi di senso.
—————-
[1] A proposito di comunicazione. Sfatiamo il mito delle istituzioni democratiche italiane. Il termine partitocrazia fu coniato da uno dei costituenti, l’on Roberto Lucifero, per classificare ironicamente il sistema dei rapporti politici della nascitura repubblica. Il neologismo ebbe successo. Fu diffuso e meglio definito dal glorioso preside della facoltà di scienze politiche di Firenze, Giuseppe Maranini (nel noto discorso inaugurale dell’anno 1949-50 dell’ateneo fiorentino), e successivamente divenne un cavallo di battaglia di Marco Pannella. In conclusione, il termine definisce una forma istituzionale in cui il sistema dei rapporti politici è controllato dai vertici dei partiti. In particolare, quando tali vertici scelgono la maggior parte dei candidati dei vertici dei tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. Oltreché, nel particolare caso italiano, di tutti i poteri locali. Poiché al cittadino, a volte, viene chiesto di scegliere tra padella o brace proposte da altrui, tale sistema viene spacciato demagogicamente per democrazia. Come? Mediante l’equivoco culturale e l’uso errato di termini e definizioni. In una parola: il plagio.
Ma approfondiamo ancora. Democrazia deriva sì dal termine greco demos, noto a tutti, ma anche dal verbo kratéins, che significa comandare, dominare (o dal termine kratòs = potere) . Eppure, le altre forme istituzionali (monarchia, diarchia, oligarchia etc.si rifanno tipicamente ad un altro termine: arché (=delega, oppure potere istituzionale, cioè limitato da un quadro giuridico). O al verbo archèin (=governare). Il termine democrazia propone quindi una forma di potere maggiore del consueto, e perciò giudicato negativamente da alcuni filosofi politici (ad esempio: Hayek). Il potere della maggioranza che può schiacciare la minoranza, potendo modificare arbitrariamente il quadro giuridico, assume un valore assai meno apprezzabile una volta compreso. Per questo, i filosofi liberali tradizionali proponevano il termine demarchia, ad indicare una forma istituzionale in cui il delegato del popolo è obbligato ad esercitare all’interno di un quadro di riferimento che non può modificare. L’esempio più calzante è la Svizzera, in cui il quadro normativo generale è soggetto a strumenti di consultazione diretta, e non ai poteri delegati.
Conclusione: conoscere il reale significato dei termini permette di conoscere altrettanto bene le teorie complesse di cui fanno parte. Ignorarlo equivale invece ad essere soggetti ad equivoci ed al plagio demagogico. Ovvero, ad essere cattivi cittadini.
[2] Esempi abbastanza evidenti di plagio di giovani generazioni potrebbero essere quelli offerti dai regimi fascisti, nazisti e sovietici. Anche gli attuali regimi islamici fondamentalisti non scherzano, soprattutto quelli che convincono i loro giovani a suicidarsi con bombe addosso, che inneggiano alla guerra santa contro il nemico occidentale altresì definito cane infedele. Ma nella ns. quotidianità, ben meno drammatica, l’esempio più evidente lo potremmo individuare in certi testi scolastici, che attribuiscono doti di perfezione ed ineluttabilità al ns. sistema giuridico-politico ed al percorso storico che lo ha prodotto.
[3] Una specie di sineddoche giuridica. Anziché il diritto allo studio, ovvero la libertà di apprendimento, quella di insegnamento. Poiché il fascismo aveva imposto un insegnamento ideologico, proibendo e reprimendo quello indipendente, la reazione dei Costituenti fu evidentemente esagerata ed incosciente.
[4] Prendiamo ad esempio il capolavoro di Primo Levi Se questo è un uomo. La ragione per cui è un capolavoro è proprio che è esente da giudizi morali. Eppure, è indubbio che il lettore li formuli. Il fatto che tutti i lettori formulino gli stessi giudizi è solo un’ennesima prova dell’esistenza di una morale naturale. Esempi analoghi noti a tutti potrebbero essere il film Schindler list, oppure il racconto di Solzenicyn Una giornata di Ivan Denisovic. O il recente film L’uomo che verrà di Diritti (bel cognome!). Non vi sono giudizi morali. Solo immagini ed episodi. I giudizi morali ne conseguono naturalmente nel lettore o nello spettatore. Ma gli esempi sarebbero innumerevoli.
[5] Non confondiamo gli insegnanti con gli scrittori, gli storici, i filosofi od i critici. A questi ultimi viene chiesta proprio un’opinione personale. Sono ruoli, aspettative e finalità diverse. Che un insegnante può certamente aspirare a ricoprire, ma separatamente dalla sua attività didattica nei confronti di minori.
[6] Il problema, di un reato siffatto, starebbe nella volontarietà. Non c’è reato senza dolo. Distinguiamo perciò la buona fede, ovvero la convinzione che la propria opinione sia valida, dalla coscienza dell’esistenza di opinioni diverse. Probabilmente, il plagio educativo è quasi sempre in buona fede. Supportato spesso dalla tradizione culturale. Un esempio limite potrebbe essere quello delle mutilazioni genitali femminili. Chi convince le bambine a tale pratica, di generazione in generazione, è chi l’ha subita. E non è in malafede. E’ possibile che ignori la possibilità di alternative? Effettivamente sì. Si potrebbe quindi escludere il dolo, ovvero il reato, persino in questo caso limite. Ed in fondo, è anche possibile che abbiano ragione, nel loro ambito culturale. Ma se ignorano visioni alternative, significa che sono ignoranti, ovvero che non possono insegnare. Gli insegnanti sono altra cosa. Vendono dubbi ed alternative, quali strumenti per ragionare e comunicare i ragionamenti.
[7] Allo stesso modo, sarebbe da integrarsi con un altro tipo di plagio: “L’utilizzo di tecniche di convincimento di cittadini con difetti di personalità o cultura, al fine di sfruttamento a proprio vantaggio personale, è un reato chiamato plagio di personalità“. Ecco finalmente tutelati in modo un po’ più preciso le vittime di adescatrici di anziani, di magnaccia, di spacciatori, di playboy della domenica e di conquistatori di psicolabili.