1 Il problema
Vorrei costruirmi una casa. Oppure, vorrei almeno ristrutturare quella che ho. Modificarla, ingrandirla, ripararla . . . posso?
Dipende. C’è l’Urbanistica!!!
Cioè: non posso neanche costruire liberamente, nella mia proprietà, un ricovero attrezzi? Un pergolato? Una fontana? Neanche piantare un cartello? Neanche tinteggiare una parete esterna?
Ebbene, in questo periodo storico-giuridico, no. Devo affrontare, prezzolando professionisti per ogni dettaglio, il severo vaglio urbanistico.
Ma cos’è? A cosa serve? E’ veramente necessario?
2 La definizione giusnaturalista
Ebbene, per l’impostazione giusnaturalista, anche l’urbanistica dovrebbe essere un potere concesso dai cittadini all’autorità pubblica al fine di garantirsi i soliti diritti dell’individuo. In particolare, per rendere compatibile il diritto di un cittadino a disporre liberamente della sua proprietà ([1]), con i diritti degli altri cittadini ([2]) all’incolumità, alla libertà personale ed alla salvaguardia del valore della loro proprietà ([3]).
E il cittadino, quali mezzi sarebbe disposto a concedere alla Pubblica Autorità per difendere i propri diritti in materia urbanistica? I soliti: sorvegliare, proteggere, qualche volta normare, coordinare. In cambio, il cittadino pagherà tributi, il più possibile in forma di tassa, anziché di imposta.
3 L’assenza di definizione e le sue conseguenze
Poniamoci ora in un sistema giuridico privo di tale definizione. In cui l’urbanistica è definita genericamente come pianificazione dell’attività edilizia a vantaggio della collettività.
Poiché ciò che è vantaggio per uno non lo è per l’altro, poiché i mezzi per ottenere tale supposto vantaggio saranno opinabili, e poiché per collettività si intenderà un gruppo di individui la cui estensione e identificazione sarà soggettiva, tale potere pianificatore risulterà qualcosa di arbitrario ed illimitato.
Con quali scopi e mezzi si svilupperà, in tale situazione, l’attività dell’Autorità Pubblica?
Come abbiamo già visto per altri poteri indefiniti ed illimitati, il burocrate cercherà comunque di evitare ogni responsabilità personale. Costruendo il solito castello di burocrazia, con l’intento illusorio di imporre al cittadino di sorvegliarsi da solo, ma col risultato pratico di vessare direttamente quei diritti individuali che, secondo il giusnaturalismo, dovrebbe difendere. In compenso, si applicherà fervidamente nel più diffuso gioco dei burocrati: la pianificazione.
4 Conseguenze dell’adozione della definizione corretta
Invece, con la solita bussola dei 3 diritti fondamentali si dipanerebbe anche il complicato groviglio dei diritti di proprietà, degli oneri concessori, delle tutele stradali, igieniche, paesaggistiche, architettoniche, artistiche, culturali, monumentali e della gestione demaniale.
Tutti gli argomenti diventano semplici seguendo il criterio dei 3 diritti. Tutti a parte uno: il fantomatico interesse nazionale. Che, come ben sappiamo, è noto solo ai duci ed ai migliori. Peccato, ne faremo a meno.
Tutte chiacchiere? Forse. Il secondo libro mostrerà allora come imporre il Diritto anche all’Autorità Pubblica, così incline a scavalcarlo dall’alto dei suoi piedistalli.
Per ora, vediamo come, uno alla volta, ogni complesso risvolto della complicata materia si chiarisce alla luce della semplice definizione dettata dal diritto naturale.
5 La congestione ed il decentramento
Entrando un po’ più nel merito, la prima cosa che si nota è che la parola urbanistica sembra focalizzarsi solo sui problemi della città (urbe). Perché? Perché il comportamento sociale naturale dell’essere umano, in fatto di costruzioni, è che tende a farle vicine ad altre. Non solo. Tende a farle troppo vicine. In altre parole, il primo problema dell’urbanistica è la congestione urbana.
Quando, nella Storia, ci imbattiamo nei grandi interventi urbanistici che sono poi stati giudicati illuminati, si incontra sempre lo stesso tipo di sforzo: la liberazione dello spazio. Allargamento di strade, esecuzione di piazze, allargamento di mura, decentramento.
La congestione urbana è invece diventato un vizio vero e proprio delle nostre amministrazioni. Anziché combatterla, viene spesso assecondata. Diversamente dai paesi del Nord Europa, dove le amministrazioni locali collocano le proprie attività in appositi quartieri amministrativi, ecco che le nostre amano piazzare tutto in centro storico. Tribunali, uffici amministrativi, caserme, stazioni, doppie stazioni una sopra l’altra… tutto lì. E a seguire, tutto l’indotto di avvocati, professionisti, loro clienti, impiegati, praticanti, etc. E ancora, le sedi centrali di banche, assicurazioni, etc.
Salvo poi lamentarsi che i centri storici sono pieni di traffico, non si parcheggia più ed il turismo latita. Ma guarda un po’! Ed invece che decentrare le loro attività, ecco che chiudono gli accessi, impediscono la mobilità e la libertà personale ai residenti, ai turisti, a tutti (a parte loro stessi). Perché? Tre cose: onnipotenza, miopia ma soprattutto ignoranza. Ignoranza di cosa? Del motivo per cui sono lì: per difendere i diritti naturali dei cittadini.
6. La congestione e la mobilità
Ma qual è il problema della congestione? Che male fa? Semplice: impedisce il movimento. Blocca la mobilità. Ecco quindi che urbanistica e mobilità sono come madre e figlia. I problemi del traffico hanno sempre origine, e quindi anche soluzione, di tipo urbanistico.
Ma allora perché, in quasi ogni Comune di questo paese, le due funzioni sono gestiti in modo indipendente? Per la solita ragione: gli amichetti di partito, piazzati qua e là senza altra qualità che la fede per la bandiera, non hanno idea di quello che fanno. Né esiste una norma statutaria a ricordarglielo ed imporglielo.
Ma non è semplicemente la libertà personale di andare a zonzo che è ostacolata dalla mania congestiva e dall’incapacità amministrativa. Il fatto è che la facilità di spostamento è legata a doppio filo allo sviluppo economico. Servizi e prodotti necessitano di spostamenti e di accessi. Ostacolare la mobilità non significa solo ostacolare la libertà personale dei cittadini, ma ha sempre ricadute economiche (d’altronde, le due cose sono sempre legate).
Altre ricadute sono evidenti anche sulla salute. A questo punto, occorre sfatare un mito: non è vero che ostacolare la mobilità con semafori, dissuasori o labirinti di Dedalo si traduca in meno inquinamento. E’ vero il contrario. Ecco un interessante parto del politico-scienziato: la convinzione che ostacolare la mobilità si traduca in minor inquinamento, perché “si riduce la velocità media”.
Una seconda idea geniale diffusa tra i sedicenti urbanisti negli ultimi 40anni è che strade e parcheggi siano fonte di traffico. Per cui, si trascurano. O si sottovalutano. O vengono addirittura chiuse. O si vieta il loro ingrandimento. Risultato? Ovvio: aumento del traffico. E dell’inquinamento ([4]).
Ma sono veramente così ignoranti i nostri urbanisti in materia di mobilità? Generalizzare è pericoloso, direi quindi che lo sono troppo spesso. Lo sappiamo tutti. Ne abbiamo la conferma quotidiana ([5])([6])([7]). Perché? In realtà, questa è una domanda sbagliata. Non è importante chiedersi perché un amministratore pubblico sia ignorante o intellettualmente limitato o plagiato dalla demagogia ([8]). L’importante è chiedersi se il Diritto gli impedisce comunque di nuocere. Ora, purtroppo, no.
E dire che sarebbe così facile. Basterebbe imporlo in statuto: Il primo compito dell’Urbanistica è difendere il cittadino dalla congestione urbana decentrando le funzioni pubbliche, pianificando e difendendo le dimensioni delle strade, agevolando gli spostamenti, diffondendo parcheggi e stazioni e privilegiando tra i mezzi pubblici quelli sotterranei.
Ma altri pericoli sono in agguato.
7 La pianificazione urbanistica e la “zonizzazione”
Come citato, l’altro grande deleterio istinto della Pubblica Autorità è quello della pianificazione ([9]).
Ora, questo termine nasconde anche attività encomiabili, eseguite da parte della P.A. ai fini della difesa del cittadino, del valore della sua proprietà, della sua libertà di movimento (mobilità) ed in fondo anche della sua libertà edificatoria, Tra questi, cito il monitoraggio e la classificazione del territorio, l’identificazione dei suoi valori paesaggistici, artistici, documentali etc. ([10]). Ma anche indicazione degli standard urbanistici ([11]), specialmente quelli inerenti la difesa della salute. Nonché tentativi previsionali sull’evoluzione del territorio ([12]), delle necessità di viabilità e della sua protezione.
Il problema nasce quando da questi dati utilissimi se ne deducono piani cogenti, generali ed indipendenti dal fine di difesa dei diritti individuali. Quando, al contrario, col solito perverso fine di evitare la sorveglianza (con relativa responsabilità amministrativa) del singolo progetto o intervento od attività edile o urbanistica, si preferisce la via della standardizzazione mediante piani generali ([13]). E con quali criteri? Le parole in libertà del complesso della normativa ([14]) permettono, come al solito, l’arbitrio pianificatore.
Una delle espressioni più deleterie è rappresentato della pianificazione generalizzata è rappresentata dall’approccio zoning di molte amministrazioni regionali e municipali.
Di che si tratta? Provo a spiegarlo. Lo zoning vede come protagonista un amministratore pubblico il quale, privo di fiducia nella potenzialità autopianificanti dell’iniziativa privata in materia economica, decide di pensarci lui. Ho già citato la pretesa di sapere meglio del mercato stesso quante farmacie, bar, botteghe vuole il mercato in ogni punto del territorio amministrato. Ancora più ardito, l’amministratore urbanista decide soggettivamente che lo sviluppo ottimale del territorio avverrà solo suddividendolo in un “Risico” di funzioni urbane ([15]) diverse e separate.
Tale curioso gioco di società fu inventato negli USA un secolo fa. Oggi, il territorio di qualunque Municipality (Comune) o County (Provincia) è suddiviso nel piano urbanistico in tanti pezzettini di differente colore. Ogni colore rappresenta una funzione urbana. Ad esempio, la residenza. O l’artigianato. L’amministrazione pubblica. La distribuzione commerciale. Le prestazioni sanitarie. La pubblica istruzione. Tutto separato.
Risultato? Il cittadino americano non può sopravvivere senza autovettura. Ogni giorno deve percorrere decine o centinaia di Km per ogni necessità quotidiana. Una boiata galattica. Infatti, da circa vent’anni è nata una diversa scuola urbanistica, detta new urbanism, che predica il dezoning. Cioè, tentano di tornare indietro.
In Italia? Da una dozzina d’anni, in ritardo di un secolo, si è diffusa tra i Comuni proprio l’approccio zoning (zonizzazione). Come al solito, non facciamoci domande sui percorsi logici dell’amministratore. Cerchiamo solo di impedirgli di nuocere. Ecco come.
8 Come non aumentare la necessità di spostamento del cittadino
1) Permettere (e difendere) la diffusione spontanea delle funzioni urbane distribuibili sul territorio.
Opposto alla zonizzazione è l’obiettivo, sconosciuto all’urbanista italico, di minimizzare la necessità del cittadino di utilizzare l’autovettura. Anziché ostacolare gli spostamenti, diminuirne la necessità.
A questo scopo, sarebbe auspicabile il contrario esatto della zonizzazione, ovvero la distribuzione diffusa delle funzioni urbane. Negozi, uffici, residenze, servizi etc. devono essere più vicini possibile. Un tempo si diceva “casa e bottega”.
Dovrebbe pensarci la P.A. alla distribuzione? Licenze e permessi? NO! Basterebbe che l’autorità pubblica non ci mettesse il becco, ed ecco che il mercato e la convenienza individuale individuerebbero automaticamente la distribuzione ottimale, meglio di qualunque pianificatore pubblico.
2) Collocare correttamente le funzioni a gestione pubblica
Esistono però funzioni urbane, tipicamente a gestione pubblica, che non sono distribuibili sul territorio. Le più importanti sono queste due:
– i Beni monumentali, con tutto l’indotto turistico-culturale che li segue. Non è che si possa distribuire sul territorio il Colosseo. O la torre di Pisa. O Santa Maria del Fiore. I monumenti, dove sono, lì stanno. Normalmente nei centri storici.
– L’amministrazione pubblica, con tutto l’enorme indotto di dipendenti, professionisti e cittadini che li segue. A parte le sedi dei quartieri, il resto è difficilmente distribuibile.
Ma altri esempi potrebbero essere i grandi ospedali, o le università, o le stazioni ferroviarie con annessi altri centri di interscambio (stazioni corriere, capolinea bus e aree taxi).
Cosa deve fare l’autorità pubblica con queste sue funzioni urbane non distribuibili, che si portano appresso un indotto (utenti e lavoratori) notevole? In realtà, c’è solo una cosa che non deve fare: mischiarle. Per due ragioni. Perché facendolo, produce artificialmente ciò che doveva evitare: congestione ([16]). In secundis, perché isolandole, invece, in quartieri dedicati e ben collegati, permetterebbe a tutto l’indotto di accedervi ed eventualmente stabilirvisi anziché correre da una parte all’altra della città per utilizzarle ([17]).
3) Favorire la costruzione dei portici.
Oltre a non interferire con l’attitudine naturale dei cittadini e del mercato a diffondersi minuziosamente nel territorio urbano, che altro potrebbe fare l’amministrazione pubblica per agevolarla?
Bè, un bello strumento fu scoperto quasi mille anni fa dall’illuminata amministrazione del libero comune bolognese: il portico ([18]). La presenza dei portici, sul lato edificato che si affaccia sulla strada, protegge la pedonalità ed agevola l’apertura dei botteghe di ogni tipo, dal commercio all’artigianato. Non a caso, tale elemento architettonico fu obbligatorio per secoli nel territorio comunale urbano. E ancora, bolognesi e visitatori ne beneficiano e se ne fanno vanto. Ed ora? Ora no. Gli urbanisti attuali, evidentemente, la sanno più lunga.
4) Incentivare le aree verdi private ad accesso pubblico
Un vecchio tema a me caro. Tale tipologia di “area verde” non esiste in Italia. Esiste solo:
– il verde privato, che massimizza la sua godibilità per i soli suoi proprietari, aumenta il valore della proprietà privata, la quale ne ha però la responsabilità, sia di sorveglianza che di manutenzione (a pena di contravvenzioni);
– il verde pubblico, il cui onere di sorveglianza e di manutenzione è spesso disatteso dal proprietario pubblico, e nei cui confronti non sono possibili forme di deterrenza.
Si assiste perciò alla tendenza dei comuni a voler far pagare alti oneri concessori ai costruttori ai fini di costruire verde pubblico, che poi in seguito non costruisce. Non solo perché il frutto degli oneri lo disperde subito in mille altri rivoli, ma anche perché il verde gli comporterà un aumento di spesa ordinaria per sempre. E notoriamente, non è che l’autorità pubblica sia maestra nello spendere poco in tutto quello che fa.
La soluzione alternativa è quindi quella indicata: la possibilità, alternativa agli oneri concessori, di costruire attorno all’area privata un’area verde, concessa gratuitamente dal pubblico al privato (che vede così diminuire gli oneri di concessione, nonché aumentare il valore e la godibilità del proprio immobile) ma con obbligo di destinazione, di accessibilità pubblica in dati orari, di manutenzione e di sorveglianza.
Lo stesso approccio dovrebbe essere possibile per le strutture sportive, all’aperto od anche al chiuso. Campi da basket o tennis o altro annessi alla costruzione, mantenuti e sorvegliati dai proprietari, ma ad accesso pubblico a certi orari. Per sempre. Dov’è l’errore? Non c’è.
5) Ammettere i vantaggi dell’architettura verticale nelle aree urbane
Le costruzioni basse hanno un difetto: consumano molto territorio. Questo consumo si traduce in una necessità di spostamento maggiore. Quindi: maggior inquinamento, maggior spreco di tempo, meno aree verdi e più subsidenza ([19]).
In sintesi, possiamo identificare due modelli di estensione delle città: la tipologia bidonville e quella verticale.
Per indurre al secondo tipo di sviluppo urbano, ammetto che sono purtroppo necessarie norme specifiche per le costruzioni in dette aree, comprendenti agevolazioni e disincentivi. L’esatta definizione di tale normativa non compete ad una Costituzione. Ciò che dovrebbe essere chiaro e vincolante a livello costituzionale è però l’obiettivo.
9 L’edilizia e le infrastrutture primarie
Bè, vi è un altro intervento urbanistico rilevante che si ripete nella Storia: quello delle reti idriche.
Quando studiamo l’evoluzione delle civiltà del passato, ecco che la presenza di acquedotti e reti fognarie emerge per importanza. Può essere identificata (anche tuttora), come lo spartiacque tra le società organizzate e l’anarchia che genera epidemie.
Le costruzioni edili, quindi, devono essere associate ad una serie di infrastrutture impiantistiche atte a preservare l’incolumità dei suoi stessi proprietari e dei loro vicini.
10 Gli oneri concessori
Gli oneri concessori (L. 10/77) sono dei tributi che il cittadino deve pagare se vuole costruire. Sono di tre tipi:
– il contributo sul costo di costruzione, con il quale il Comune dovrebbe costruire case per i poveri.
– gli oneri primari, che dovrebbe essere commisurato al costo di strade, parcheggi ed infrastrutture impiantistiche.
– gli oneri secondari, con il quale il comune dovrebbe costruire scuole ed ospedali, parchi ed impianti sportivi.
Questa impostazione genera i seguenti problemi:
1] problema contabile l’organizzazione contabile dei Comuni non prevede né la quantificazione precisa delle spese per tali servizi, né l’utilizzo dedicato di tali contributi ai servizi per cui sono pagati. Tutto viene buttato nello stesso calderone e chi è più lesto se lo prende. Tale arbitrio ha poi permesso alle amministrazioni locali di aumentare ad libitum il numero di oneri concessori. Un esempio: quelli per il cambiamento d’uso delle unità immobiliari. Assurdi. Devo affittare la mia casa ad uno studio di avvocati? Un fiorino. Gli avvocati se ne vanno ed arriva una famiglia? Un fiorino. Un dentista? Un fiorino. Altro che fiorino. Cifre da capogiro che semplicemente impediscono gli affitti. Penuria di case? Ma va a . . .
2] Assurdità concettuale dell’edilizia popolare ([20])
– Le case per i poveri (dette demagogicamente popolari), sia costruite dal Comune ([21]), sia da privati agevolati ([22]) o finanziati direttamente ([23]) dal Comune, normalmente costano un sacco e sono scadenti. Non si capisce perché una città debba essere gravata per l’eternità da (spesso orridi) “quartieri popolari”, quando invece dovrebbe puntare ad espandersi nel modo migliore possibile.
– I criteri per l’assegnamento sono sempre ingiusti e criticabili. Ma anche quando non sono veramente truffaldini ed a favore di politici e loro parenti, esprimono comunque un diritto all’abitazione che non potrà mai soddisfare il mare di gente che l’abitazione non può permettersela. Violando così quel principio di isonomia che è base del Diritto.
– Chi l’abitazione potrebbe permettersela al pelo, per merito sia del contributo sul costo di costruzione, sia per le altre imposte comunali sulla casa, dovrà invece rinunciarvi. Ovvero, il risultato ottenuto è opposto a quello cercato.
– L’idea dell’edilizia pubblica fu copiata durante il fascismo dall’esempio sovietico, al tempo in cui tale modello era esaltato dal mondo intellettuale. Non ha fatto una bella fine. Forse, è ora di abbattere il muro anche in questo Paese.
3] Scuole e strutture sanitarie private. Dopo tutto ciò che è stato detto sulla necessitò di privatizzare tali attività (vedere capitolo relativo), i relativi oneri non dovrebbero gravare sulla finanza pubblica se non in minima parte.
4] Parchi ed impianti sportivi. Il Comune li vorrebbe, perché giustificano gli oneri relativi, ma al contempo li aborre perché necessitano manutenzione. E alla fine non li fa. O, se li fa, li lascia in condizioni pessime. Nella cultura socialista imperante, mai si è pensato alla possibilità del verde privato ad accesso pubblico. E degli impianti sportivi privati ad accesso pubblico. Non necessiterebbero di costi di manutenzione pubblica, il privato sarebbe obbligato dalle norme locali alla loro manutenzione, ed i loro costi di costruzione non sarebbero gravati dal passaggio alla mano pubblica.
Conclusione:
Le soluzioni ai problemi succitati, così come sembrano insormontabili alla fauna che frequenta i partiti (e quindi le amministrazioni), sono invece immediati per il cittadino di buon senso:
1] Gli oneri devono essere contabilizzati in modo separato per le uniche attività pubbliche giustificabili: strade, impianti, parchi pubblici. Basta! Ed i cittadini devono avere il diritto di verificare la corretta quantificazione di tali oneri. Nonché la loro corretta destinazione. Nonché il diritto alternativo a costruirsele da soli, strade ed impianti di rete, anziché delegare l’autorità pubblica ([24]).
2] L’edilizia popolare non ha senso. Esiste già l’assistenza sociale per i poveri, che può finanziare direttamente anche le (temporanee, impreviste e gravi [25]) necessità di alloggio, e che già grava sul gettito delle imposte. Molto meglio che ostacolare con oneri il diritto di tutti i cittadini ad un’abitazione. Inoltre, la pretesa di costruire case per i poveri è semplicemente irraggiungibile, se è vero che poveri sono oggi un terzo dei cittadini.
3] Scuole, sanità ed impianti sportivi privati non costano nulla al pubblico, ma possono comunque essere agevolati riservandogli aree apposite e con finanziamenti (=prestiti) agevolati. Una enorme agevolazione può essere conseguita attraverso la semplice diminuzione degli oneri burocratici. Ma anche la presa in carico da parte della PA degli impegni normativi da essa stessa imposti sarebbe un approccio auspicabile ([26]).
4] Vanno istituiti due nuovi elementi di pianificazione urbanistica: il verde privato ad uso pubblico (che andrà ad incidere positivamente anche sul rapporto di copertura) ed i campi sportivi privati ad uso pubblico. Cioè aree dei condomini che li valorizzano con verde e campi sportivi pertinenti, ma accessibili al pubblico nelle ore diurne.
Tutto ciò non impedisce alle casse comunali, qualora in attivo per il gettito da imposte, di costruire ulteriori campi sportivi, palestre, piscine, parchi pubblici. Ma non si può vessare il cittadino per costruire (forse) impianti pubblici che poi l’amministrazione neanche riesce a manutenere e gestire.
11 La tutela della proprietà immobiliare
Questo è un paragrafo un po’ complicato. Riguarda le attuali attività di tutela. Tutela di cosa? Del paesaggio, dei beni architettonici (in senso artistico e culturale), dei monumenti.e delle proprietà demaniali (pubbliche).
Questo paese è costellato di territori e di edifici tutelati. Cosa significa? Genericamente, significa che la proprietà di chi possiede un edificio di questo tipo, oppure un’area in un territorio così definito, è limitata.
Il problema è capire quanto sia limitata e perché, ai fini di difesa dei diritti naturali dell’individuo.
Perché se si perde di vista quest’approccio, che tutelando il valore di paesaggi e beni di valore artistico o culturale tutela anche quello della proprietà dei cittadini, allora inizia l’arbitrio ed il sopruso pubblico, agevolati da costellazioni di norme complesse ([27]) e parolaie ([28]).
– tutela del bene architettonico di valore artistico.
Il proprietario di un immobile di valore artistico, deve badare bene di essere e rimanere ricco. Infatti, il degrado dell’immobile sarebbe un reato a suo carico. E visto che normalmente tali beni hanno qualche secolo, le necessità di ripassatine per evitarne il crollo non sono infrequenti né economiche. Aiuti pubblici? Una volta erano previsti. Ora non più.
C’è qualcosa di strano in questo concetto: la collettività ritiene che un bene sia di valore per lei, ma pretende che la paghi solo uno dei suoi componenti.
Eppure, se veramente il bene ha valore artistico, nessun finanziamento sarebbe meglio garantito che il prestito pubblico per il suo salvataggio ([29]).
E invece no. Non è previsto. Eppure, dovrebbe. Proprio perché aiuterebbe un cittadino a tutelare il valore della sua stessa proprietà, almeno quando tutelando la proprietà privata si tutela anche l’interesse collettivo. E senza neanche che quest’ultimo rischi di perderci una cippa.
Conclusione: è necessario un articolo costituzionale che imponga agli enti locali il finanziamento (= prestito) degli interventi di salvaguardia dei beni architettonici privati, con questi ultimi a garanzia del finanziamento. In alternativa, il finanziamento a fondo perduto, in cambio di diritti di accesso pubblico concordati con la proprietà in base a stime di ritorni economici. ([30]) ([31])
– Esempio della tutela del bene architettonico di valore culturale.
Il discorso sarebbe analogo a quello del bene artistico, ma con una caratteristica in più.
Non essendo mai stata definita la cultura, ancor più arbitrario risulta il potere pubblico di decidere cosa abbia interesse cultuale e cosa no ([32]). La conseguenza è che, nel paese dei grandi architetti, di Michelangelo, Bramante e Brunelleschi, del Liberty, del Futurismo di Sant’Elia e del Monumentalismo neoclassico, ora vengono tipicamente tutelate le stalle.
Ora, badiamo bene: se un cittadino possiede un rustico con stalle a voltine e fienile a colonne, mangiatoie e colonnine in mattoni facciavista, muro tagliafuoco e tetto a capriate in legno, direi che è fortunato. Se anziché ristrutturarla con cura, la butta giù per farci una villettina del piffero, fa del male a se stesso, e quando lo capirà si mangerà le mani. Ma l’autorità pubblica dovrebbe veramente impedirgli di fare quel che gli pare con la sua proprietà? Quale sarebbe il suo compito, in materia di difesa del diritto individuale? A mio avviso, solo uno: quello di informare l’individuo del valore architettonico della sua proprietà. Fatto ciò, il suo dovere è finito. Se poi al posto della stalla il cittadino volesse un palazzotto di Alì Babà col minareto, perché no? O una minicopia di Westminster? E chi mi dice che tra 10 anni, 50 o 200, tale costruzione non acquisirà un interesse culturale o artistico straordinario? Che non rappresenterà l’orientamento architettonico di quest’epoca? O la straordinaria ed inestimabile creazione di un architetto pazzo?
Il concetto è estendibile ad ogni tipo di bene architettonico, anche a quelli definiti di archeologia industriale. Una volta accertato di aver ben informato il cittadino che il suo bene vale, dal punto di vista architettonico, molto di più del suo computo metrico, l’AP ha fatto il suo dovere nei confronti del cittadino. E, per proprietà transitiva del Diritto in senso lato, per tutti i cittadini. Se poi fornisce tutte le indicazione per valorizzare il bene al meglio ([33]), plaudiamo calorosamente.
Ma poi si dovrebbe fermare. E il cittadino, fare come gli pare (difficilmente sbaglierà. Ma se lo farà, pazienza, e peggio per lui). Ora non è così.
– Esempio della tutela del territorio di valore paesaggistico.
Il valore paesaggistico è un termine che va spiegato. Se un tempo (legge Bottai del ‘39) includeva solo il suo significato più istintivo, ovvero quello estetico, ora include anche quello di testimonianza storica ([34]), e di importanza idro-geologica.
Tralasciamo un attimo quest’ultimo, che è collegato ad aspetti ingegneristici, di tecnologia delle costruzioni e delle acque. Concentriamoci su quello più difficile da oggettivare, ovvero quello estetico-culturale. Poniamo che in un certo territorio vi siano solo case coloniche e campi. Bene. Il signor Tale della Soprintendenza, funzionario per la tutela del Paesaggio, valuta che tale territorio abbia valore paesaggistico, e quindi si possano costruire solo case coloniche in stile. Cosa c’è di sbagliato?
Bè, di sbagliato c’è il divieto. Di buono c’è lo sforzo di aver trovato un valore particolare in un territorio. Ed in questo senso, la soprintendenza ha fatto dei lavori egregi su tanti territori, tipologie architettoniche, modalità di restauro e di recupero. Ma l’obbligo, in tanti casi, sembra assomigliare troppo al sopruso. Come evitarlo?
Esempio: in mezzo a tutto ‘sto contado, il signor X decide di fare un centro commerciale. O una piscina. O un campo da golf con club house etc. Ma il territorio è tutelato.
Ora, questo è un caso diverso dall’edificio singolo. E’ tutto un territorio. Perciò, prima di rischiare di diminuire il valore di un intero territorio, ovvero il valore delle proprietà di un sacco di gente, il signor X dovrà chiedergli il permesso. E se i vicini sono d’accordo? Se i proprietari delle case coloniche non vedessero l’ora di un bel centro commerciale, o di una piscina pubblica, o di un campo da golf e tennis etc?
Mi dispiace, ma anche in questo caso l’A.P. dovrebbe rispettare il volere dei suoi cittadini. Li ha informati? Li ha messi in condizione di decidere? Grazie tante, ora ci pensano loro ([35]).
Peccato che non sia così.
Vi sono però anche esempi di tutela di valori molteplici: sia paesaggistici, che architettonici, che culturali: è il caso dei centri storici. Anche in questo caso, è fondamentale che la barra del timone sia indirizzata sempre verso la stessa direzione: l’interesse dei cittadini che vi abitano ([36]). Non “l’interesse nazionale” (quale?) o quello di non si sa quali studiosi. Precisando questo obbiettivo/obbligo per il burocrate, tanti dubbi si risolverebbero come neve al sole:
– un palazzo antico subisce un parziale crollo? E’ interesse dei cittadini ricostruirlo come prima ([37]), anche se con tecniche moderne, o salvare solo la parte rimasta in piedi, puntellandola con strutture in acciaio nero per far vedere che non sono antiche? Se si ragione con l’ottica del cittadino, non vi sarebbero dubbi.
– Un’opera architettonica è incompleta, soggetta quindi a continui restauri perché priva di rivestimento e sempre circondata da ponteggi. Va completata in stile (alla “Rubbiani”) o lasciata così per evitare falsi? [38]
– I tetti coperti con vetusti coppi rossi offrono uno spettacolo straordinario. Posso diminuire il valore di tale paesaggio, e quindi della proprietà di tutti i cittadini proprietari, con un bel tetto piano in cemento? No grazie. L’eventuale permesso concesso rimarrà sempre una spada di Damocle per chi l’ha concesso.
Ma anche speciali norme di tutela o valorizzazione delle proprietà immobiliari sono definibili localmente. Salvo, l’approvazione dei cittadini. Ad esempio, nel medioevo comunale, a Bologna fu stabilito che il colore dei palazzi dovesse contenere almeno una sfumatura di rosso. Dal giallo-ocra al violetto. Da allora, Bologna venne definita “la rossa”, e veniva visitata anche per i suoi suggestivi cromatismi. Dal dopoguerra, non più. Evidentemente, da allora i suoi amministratori ritengono che l’antica definizione avesse connotati esclusivamente ideologici.
Insomma, le “norme”, le “linee guida”, le classificazioni prodotte in questi anni dal Ministero dei Beni Culturali, ma anche le proposte amministrative locali in materia di tutela possono essere di indubbio valore. Ma il modo migliore di utilizzarle è utilizzando il metro del vantaggio del cittadino. E nei casi dubbi, utilizzare la consultazione diretta. Senza questo metro, l’amministratore urbanista sarà privato di qualunque responsabilità oggettiva dei suoi atti, e l’autorità pubblica sarà protagonista, come ora, di atti di sopruso impuniti ed impunibili.
– Esempio della tutela del monumento nazionale
Altre beni architettonici sono classificabili come monumenti nazionali. Cioè, beni che arricchiscono una comunità ancora più vasta di quella di un territorio o di una piccola comunità, arricchimento tipicamente legato all’industria turistica ed al suo vasto indotto. La “vastità dell’indotto” rende impossibile una sua gestione diretta, perciò è necessario affidarne la tutela direttamente all’autorità pubblica. Un primo problema è che tali beni potrebbero essere di proprietà sia pubblica che privata. Vediamoli separatamente:
Proprietà pubblica: quale potrebbero essere i problemi? Sostanzialmente che l’amministrazione non faccia il proprio dovere di tutela e di sfruttamento del bene pubblico. I motivi potrebbero essere di tre tipi: superficialità, ignoranza o mancanza di fondi. Che puntualmente si manifestano come fari nella nebbia giuridico-politica attuale. Che fare? Come al solito: prima di tutto definire gli obiettivi identificandoli con la tutela dell’interesse dei cittadini (come spiegato sinora), e poi responsabilizzare individualmente i funzionari pubblici (secondo libro).
Proprietà privata. Attualmente, la legge impone al proprietario la manutenzione del bene, che però può farsi finanziare dal Ministero dei Beni Culturali. Poiché quest’ultimo non ha più fondi, è rimasta la sola cogenza (sia penale che civile) per il proprietario. Ovviamente, c’è qualcosa che non va. Come risolvere l’arcano? Basta un po’ di grano salis per capire che identificando gli obiettivi, il problema si risolve da solo. Se è vero che il monumento nazionale, in quanto tale, ha un valore ovvero è fonte di ricchezza, va da se che la manutenzione, ricostruzione etc. non sono alto che investimenti. Ciò siginifica che se è il al proprietario a metterci i soldi, questo dovrà anche avere il diritto di ritornare dall’investimento sfruttando il monumento che ha ricostruito, riparato o mantenuto [39]. Se invece è l’autorità pubblica a metterci il grano, dovrebbe acquisire lei il diritto di fare altrettanto [40].
Ebbene, nulla di tutto ciò è attualmente permesso. Assurdo, no? E perché? Per il solito problema. Perché la nebbia di parole vuote che circonda, in questo caso, l’argomento “bene culturale” impedisce di chiarire mezzi ed obiettivi.
Ecco, basta avere delle definizioni semantiche che già si capisce ciò di cui si sta parlando, ed i problemi si risolvono naturalmente. Ma a ciò va affiancata la responsabilizzazione del funzionario pubblico (secondo libro).
– Esempio della tutela della proprietà demaniale
Non c’è molta differenza concettuale rispetto al caso precedente, a parte che non si tratta di monumenti, ma di qualunque altra cosa. E’ noto però che le proprietà demaniali italiane sono accomunate dalla singolare qualità di andare velocemente in malora. Chi ne è responsabile? Nessuno. Che succederebbe se venissero privatizzate? Un mare di problemi per quel funzionario pubblico che osasse solo provarci.
La soluzione? Le risposte alle due precedenti domande andrebbero ribaltate.
Come? Al solito: le definizioni servono a chiarire che la responsabilità del funzionario è quella di preservare e sfruttare il bene (eventualmente vendendolo o affittandolo, ed eventualmente con vincoli), e la separazione dei poteri e l’organizzazione secondo le norme di qualità (secondo libro) servono ad assicurarsi che lo faccia e comunque ne sia responsabile.
12 Conclusione e riepilogo
L’approccio giusnaturale vorrebbe che il diritto all’attività edificatoria fosse difeso, non ostacolato dall’Autorità Pubblica. La quale deve al contempo preservare i diritti naturali di tutti i cittadini relativi a salute, libertà e proprietà che potrebbero essere minacciati da tale attività del singolo.
In altre parole, la funzione dell’autorità pubblica deve essere quella di difendere i diritti naturali, anche nei complessi argomenti dell’urbanistica. A tal fine, essa dovrebbe: opporsi alla naturale tendenza delle comunità urbane alla congestione, imporre norme di igiene e salute e di salvaguardia della mobilità, nonché sorvegliare ed informare al fine di salvaguardare il valore della proprietà.
L’attività pubblica odierna è ben lontana da questa naturale impostazione.
[1] Ad esempio costruirvi sopra
[2] Non dell’impersonale “collettività”
[3] Se invece prescindiamo dalla definizione “giusnaturale”, cosa troviamo? Al solito: fiumi di parole, per lo più dal significato impreciso, che definiscono concetti opinabili.
[4] Un buon esempio è quello della tangenziale di Bologna. Il primo Sindaco di Bologna, G. Dozza, nel 1964 fece costruire un semianello stradale che circumnavigava la città dalla parte della pianura. La parte centrale era autostradale (costruita dalla Società Autostrade), mentre le laterali erano comunali (poi provinciali, ora regionali). Lo sviluppo economici lasciava presagire un aumento del traffico negli anni successivo, per cui la giunta Dozza predispose un’ampia fascia di rispetto per il suo futuro allargamento. Dal 1970, infatti, nelle ore di punta (8:30 e 17:30) il traffico è ivi bloccato. La gente si chiese per 20 anni quando mai l’avrebbero allargata. Poi smise. Perché? Perché la giunta Imbeni, nel 1990, contro la veemente protesta della città, decise di lottizzare le aree predisposte all’allargamento della tangenziale. Giustificazione? Ostacolare l’infausto utilizzo dell’autovettura. Ora, la tangenziale è sempre bloccata, l’autostrada pure, lo sviluppo della città bloccato dagli anni ’70, ma il popolo della tangenziale è rassegnato. E non c’è via d’uscita. Ormai, quel che è fatto è fatto, e lo sviluppo economico e demografico della città paralizzato per sempre.
[5] Esempio 2: alla fine degli anni ’90, venne pagato dal Comune di Bologna un importante studio di tipo statistico per sapere se gli attuali utenti automobilistici avrebbero potuto rinunciare all’uso della vettura personale in favore di quello pubblico, se potenziato. La risposta del costoso lavoro fu negativa. Dopo qualche anno, tale studio fu dimenticato ed intraprese costosissime iniziative per il potenziamento del servizio pubblico, ovviamente ostacolando il privato. Risultato: aumento enorme dell’inquinamento, e spese pazze (scandalo CIVIS, inutili lavori stradali, potenziamento preferenziali, studi poi buttati nel dimenticatoio come la metropolitana di superficie ed altri innumerevoli).
[6] Esempio 3: il Dipartimento di Fisica di Bologna ha una sezione dedicata allo studio del traffico. Mediante la “analogia idrodinamica”, ha messo a punto un software sofisticato con il quale fornisce consulenza a tutta Europa. Ad Amburgo pensano di modificare alcuni semafori? I fisici di Bologna informeranno Amburgo come si modificherà l’inquinamento ed i tempi di percorrenza. Il Comune di Bologna, invece, specializzato nel buttare milioni in progetti e consulenze inutili sulla mobilità, non si è mai rivolto al suo stesso Istituto di Fisica.
[7] Esempio 4: per un quinquennio il Comune di Bologna (giunta Cofferati, assessore urbanista Merla) investì cifre considerevoli in consulenze, studi e progetti per l’esecuzione di una metropolitana (i vent’anni precedenti erano stati spesi ad affermare che era impossibile perché sul sottosuolo di Bologna “c’erano i canali”). Bene, si parte! Soldi stanziati dall’Europa, dallo Stato, dalla Regione, progetti pronti, fanfare che suonano . . . alt! Che è successo? Semplice: qualcuno si è accorto che sul tracciato della futura metropolitana era stata già eseguita un’altra opera: la linea dell’Alta Velocità. Sottoterra, proprio dove il Comune stesso aveva indicato di metterla. Non è una barzelletta. E’successo proprio così! Perciò, per la scelta scellerata di fare una stazione sopra all’altra, nel posto che era già congestionatissimo, la città di Bologna non solo non avrà MAI due stazioni, ma non avrà MAI neanche una metropolitana! MAI! Ecco come uccidere una città. In una mossa sola.
[8] L’argomento verrà comunque trattato nel libro secondo, quello sulla separazione dei poteri.
[9] Breve storia delle norme sulla pianificazione urbanistica in Italia:
– RD2321/1865: istituzione dei piani regolatori (libera facoltà per i comuni con + di 10.000 abitanti);
– RD 297/1911: impone la cogenza dei piani urbanistici comunali, spesso disattesi per ricorsi di incostituzionalità, ai fini di igiene ed estetica. Cogenza confermato ed ampliata dalla L2471/35 e dalla 710/38 (istituzione di autorizzazioni e licenze).
Anni’30: pianificazione urbanistica esaltata dal razionalismo (es: neo città di Portolano e Sabaudia).
– RD 1265/1934: legge Sanitaria istituente le fasce di rispetto cimiteriali
– L.1150/42: (Legge urbanistica) ridefinizione dei PRG, ora eterni, ed introduzione dei piani particolareggiati.
– L. 1402/51: “piani di ricostruzione” postbellica, prorogati fino agli anni ’80.
– 1960: fondazione di Italia Nostra e dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (Istituzioni pubbliche)
Anni ’60: decennio degli scandali edilizi, collusione tra PRG, malaffare e politica.
– L.765/67 (Legge “ponte”): introduce gli “standard urbanistici”. Associati ai DM 1444 e 1404 /68.
– L.1187/66 (Legge “tappo”): vincola i piani espropriativi ai piani particolareggiati e di lottizzazione convenzionatati.
– L.426/71: istituisce i Piani di commercio.
– L.1102/71:istituisce le comunità montane
1970: Istituzione delle Regioni (elezione dei consigli regionali)-DL 1121/71: delega alle regioni delle funzioni amministrative, tra cui quelle legislative inerenti la pianificazione urbanistica.
– L.10/1977 (Buccalossi): istituita la concessione edilizia onerosa; scorporo del diritto di edificazione dalla proprietà. Istituiti anche i Piani Pluriennali di Attuazione, inerente soprattutto l’edilizia popolare per attuare un piano di costruzione di 300.000 alloggi in 10 anni (politica di solidarietà nazionale).
– L.392/38: Istituzione dell’equo canone per gli affitti
– L. 457/78: Istituzione di Zone e Piani di recupero
– L. 94/77 (Nicolazzi): annulla la cogenza dei Piani Pluriennali;
– 1988: Creazione del Ministero dell’Ambiente, a cui si devono:
– i decreti sulla qualità dell’aria e dell’acqua (1988);
– L.146/94 e DPR 12.4.96 Valutazioni di impatto ambientale
– L.183/89 e Piani di Bacino
– L.10/91: minimi strutturali ed impiantistici per il risparmio energetico
– L.477/95: Inquinamento acustico e Piani di Azzonamento Acustico
– L.36/2001: Esposizione ai campi magnetici
– DM 5/9/94: Elenco industrie insalubri
– L. 394/91 Legge quadro sulle aree protette
– DCPM/99: piani PUGGS sugli impianti nel sottosuolo
– L. 493/93: Istituzione dei piani di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile (PRUSST);
– L.142/90: formazione aree metropolitane e istituzione degli accordi di programma, anche in deroga ai PRG.
– L.127/97 (Bassanini): incentivi per la programmazione urbanistica allineata alla progettazione delle opere pubbliche della 109/94 (Legge quadro sui lavori pubblici-Merloni);
– DPR 267/2000 (Testo unico sull’ordinamento degli enti locali);
A queste si aggiungono:
– quelle su mobilità e traffico
– quelle sulle case popolari
– quelle sugli espropri per pubblica utilità (specialmente infrastrutture e case popolari)
– tutte le diverse legislazioni urbanistiche regionali emesse dal 1971;
– le norme sul progetto delle costruzioni, tra cui quelle antisismiche.
[10] Trattati più avanti nei paragrafi sulla tutela del valore della proprietà
[11] A parte l’ovvia necessità degli standard igienici, ricordo che un edificio non è qualcosa che si cambi come uno spazzolino. Una volta costruito resta lì per generazioni o secoli. Un quartiere costituito da edifici scadenti e strade insufficienti impone per generazioni ai suoi cittadini disagi abitativi.
[12] Anche queste potenzialmente utili, nonostante gli errori a cui sono soggette. Ricordo che nel 2002 venne verificata la correttezza delle previsioni di espansione di tutti i comuni italiani effettuati una decina di anni prima, sommando le quali risultò che nell’anno della verifica la popolazione italiana avrebbe dovuto superar i 360 milioni di anime!
[13] DIMOSTRAZIONE: con la pretesa di generalizzare e pianificare tutto, cito di seguito solo alcuni dei piani a cui dovrebbe essere soggetto ogni pezzettino dell’intero territorio italiano. Piani comunali: PSC, RUE, POC, PP, PdR, PEEP, PIP, PUT, PUL, PdF, PdC, PRUSST, PUGGS, PAA ed altri – Piani intercomunale e provinciali: PTR, PPR, PTCP – Regionali: PTR, PPR.
[14] Più avanti estenderò l’argomento “parole in libertà” applicato ai beni artistico/culturali. Qui mi limito a citare la più diffusa, demagogica ed inutile: l’attributo “sostenibile”.
[15] Per funzioni urbane intendo tutte le funzioni che un territorio urbano può offrire al cittadino: residenza, commercio al dettaglio, artigianato, ristorazione, amministrazione pubblica, industria, servizi sanitari, studi professionali, attrazioni monumentali-artistiche-culturali, parchi demaniali, centri universitari, attività ludiche serali, etc.
[16] Un esempio che tutti i bolognesi conoscono è quello del tribunale in centro storico. La sua presenza richiama quotidianamente migliaia di persone, a cui contemporaneamente è negato l’accesso proprio per evitare l’inevitabile: la congestione. Come apparente soluzione, l’amministrazione riempie le strade medioevali di mezzi pubblici sempre più giganteschi ed invadenti, lamentandosi al contempo perché il turismo diserta la visita di quella che sarebbe altrimenti un gradevole centro storico pieno di esempi architettonici senza pari.
[17] Continuando l’esempio reale precedente, pensiamo alla massa di studi professionali richiamata nel centro storico succitato dal tribunale. Poniamo, però, che gli uffici comunali siano all’esterno della città, la camera di commercio in una terza e distante area, così come gli uffici della Regione disposti in due parti opposte della città, una quinta zona per le sedi delle AUSL, un’atra ben distante per la tipografia dell’ufficio tecnico comunale etc. Sarebbe questa la strategia per diminuire la necessità di spostamento? Non sarebbe invece così semplice un solo quartiere amministrativo, raggiungibile con tutti i mezzi e parcheggiabile? E tanto per continuare a copiare l’urbanistica del nord europa, non sarebbe auspicabile un adiacente quartiere per le sedi centrali del terziari avanzato (banche ed assicurazioni)? Tanto per fare un esempio, mai sentito parlare del quartiere parigino La Defense?
[18] Tra il XI ed il XII secolo, Bologna subì un enorme aumento demografico per via dello sviluppo degli studi giuridici. Giuristi ed aspiranti tali giungevano quivi per studiare il codice giustinianeo (giunto a Bologna non si sa come da Ravenna) nonché le sue interpretazioni giurisprudenziali degli esperti locali: i Glossatori, coloro cioè che aggiungevano note (dette glosse) interpretative al Codice.
L’illuminata amministrazione comunale, impediva però l’ampliamento degli edifici a spese della dimensiona stradale. Per questa ragione cominciarono ad essere allargati solo i piani superiori, che spesso rischiavano di crollare. Laddove la strada era abbastanza larga, l’amministrazione concesse perciò di puntellare con colonne i pericolosi aggetti. Si scoprì immediatamente che tale soluzione proteggeva il transito pedonale ed incoraggiava l’apertura di botteghe. Il portico venne perciò reso obbligatorio per tutte le nuove edificazioni.
[19] “Subsidenza” significa “sprofondamento”. Praticamente, quando l’acqua piovana non alimenta più il terreno in quanto incanalato da strati impermeabili (cementificati) verso le fognature, il terreno (sia fondale che superficiale) si secca e si contrae. Questo consegue due fenomeni: l’abbassamento, lesivo e pericoloso, degli edifici, ed il degrado del “verde” (alberi ed erba). Per un certo periodo di tempo, i geni dell’urbanistica pubblica hanno incentivato quella che consideravano la miglior soluzione: fare i cortili sui tetti (tetti verdi). No comment.
[20] Inserire breve storia della legislazione sulle case popolari
[21] In questo caso si chiama “edilizia sovvenzionata”
[22] “edilizia agevolata”
[23] “edilizia convenzionata”
[24] Salvo l’onere minimo per finanziare il vero compito dell’Autorità Pubblica: sorvegliare ed ispezionare quello che fanno veramente!
[25] secondo quanto descritto nel paragrafo relativo.
[26] Esempio: se un’amministrazione ritenesse una necessità irrinunciabile per la salute dei cittadini che tutti i bagni femminili fossero di colore rosa, sarebbe giusto che pagasse la tinteggiatura imposta.
[27] Breve riepilogo storico delle norme sulla tutela artistica e culturale:
– L.1089/39 (Bottai) sulla tutela dei beni di interesse artistico, storico, archeologico ed etnografico
– L.1497/39 sulla tutela delle bellezze naturali
– L.431 (Galasso): impone alle regioni i Piani Paesistici;
– L.349/86: Istituzione della valutazione di impatto ambientale, per le sole grandi opere.
1988: Creazione del Ministero dell’Ambiente, a cui si deve, per la tutela, il Dlgs 490/99 -Testo unico sulla tutela dei beni culturali ed ambientali.
[28] Parolaie: commentare la nuova norma (dispense).
[29] Ovviamente, parlando di prestiti per un bene di interesse pubblico, dovrebbero essere ad interesse pari solo all’inflazione, e non limitati nel tempo (salvo morte del contraente). L’ipoteca stessa sarebbe poi un incentivo sufficiente alla restituzione del finanziamento.
[30] Attualmente tali finanziamenti sono limitati ai fondi stanziati preventivamente dal ministero dei beni culturali, sempre irrisori rispetto al fabbisogno. Questo è sbagliato, non solo perché degli stanziamenti generici a livello ministeriale si perdono in mille rivoli, o perché i criteri di assegnazione sono sempre criticabili. Ma perché se è vero che un bene è una ricchezza della collettività, il suo degrado non può essere un risparmio, bensì una perdita. E perché se tale ricchezza è reale, lo è per la collettività locale. Così come sarebbe locale la sua eventuale gestione ai fini turistici, promozionali, culturali. Lo Stato deve sorvegliare gli enti locali. Nient’altro.
[31] Inoltre, la natura del deficit di bilancio e quindi del debito pubblico, sia a livello locale che generale, dovrebbe essere straordinaria. Non ha senso la gestione ordinaria in rosso. Il debito è giustificato da interventi straordinari, come ad esempio quelli per la salvaguardia di un’opera od un monumento in pericolo.
[32] Breve dissertazione sul termine “bene culturale” in normativa
[33] E questo, il Ministero dei Beni Culturali è riuscito a farlo egregiamente: commentare il codice dei beni culturali.
[34] In senso vasto: tecnologica, economica, militare etc
[35] Nella maggior parte dei casi, i cittadini tengono a tutelare il proprio territorio. Pensiamo soprattutto alla zone turistiche, dove il paesaggio è sia fonte di reddito che di benessere che “ricchezza emotiva” e “radice culturale” per i propri cittadini. Le tendenze conservative sono anche troppo radicate. Non c’è bisogno di norme prevaricanti il loro volere per imporre la conservazione di spiagge e di montagne. Basterebbe interpellarli.
[36] citare la Convenzione Europea del Paesaggio
[37] Esempio: palazzo della Mercanzia a Bologna dimezzato da un bombardamento
[38] Esempio: la facciata di Santa Maria in Fiore a Firenze, celeberrimo trionfo del barocco (su struttura gotica), non è stata eseguita nel’600, ma alla fine dell’800. Palazzo Re Enzo ed adiacente Palazzo d’Accursio a Bologna, begli esempi di architettura medioevale, ornati di suggestivi merli e bifore aggiunti nel ‘900.
[39] Magari con finanziamenti agevolati garantiti dall’Amministrazione Pubblica, ma ovviamente sotto sorveglianza dell’Autorità.
[40] Anch’essa soggetta a sorveglianza, secondo il principio della separazione dei poteri.