Tra le formule politiche con cui i testi scolastici plagiano da un secolo il giovane cittadino, vi è quella secondo cui la rivoluzione industriale causò un maggiore divario tra le classi sociali, in particolare peggiorando le condizioni delle classi più povere.
Questa teoria fu proposta inizialmente da K.Marx, non come osservazione di fatti storici (a lui impossibile, visto che scriveva quasi un secolo dopo gli avvenimenti che citava) ma come deduzione dalla sua “teoria del plus valore”, secondo cui l’aumento di ricchezza di una classe sarebbe sempre conseguito a spese dell’impoverimento dell’altra.
Per ragioni incomprensibili, non solo questa folle teoria ancora ci perseguita, ma le deduzioni sulle conseguenze della rivoluzione industriale, immediatamente smentite da schiere di studiosi, ancora vengono proposte nei testi scolastici e nelle discussioni pubbliche come dati di fatto.
La Libreria del Ponte propone una collezione di saggi che dall’inizio del novecento smentisce quanto sopra (Il Capitalismo e gli Storici, Bonacci editore, con saggi di di T.S. Ashton, L.M. Hacker, Bertrand de Jouvenel, V.H. Hutt, R.M. Hartwell, F. Von Hayek ed altri).
Pubblichiamo qui, per brevità, solo un chiarissimo articolo di Guglielmo Piombini sull’argomento, tratto dal libro “La proprietà è sacra” (Il Fenicottero, Bologna, 2001).
“La nascita del proletariato viene tradizionalmente fatta coincidere con l’evento epocale che si verificò nell’Inghilterra di fine ‘700: la Rivoluzione Industriale. L’importanza fondamentale dell’avvento del sistema di fabbrica nella storia della civilizzazione umana costituisce un dato acquisito negli studi storici e sociali.[1] Anche gli studiosi maggiormente critici con gli effetti immediati della prima Rivoluzione Industriale riconoscono infatti l’esistenza di uno spartiacque profondo tra il Vecchio Ordine millenario dello Stato assoluto, del militarismo, dell’oppressione, della miseria di massa e delle carestie, e il Nuovo Ordine sorto dalle rivoluzioni liberali classiche e dalla conseguente Rivoluzione Industriale, caratterizzato da un incredibile miglioramento delle condizioni di vita delle masse, da uno stratosferico aumento demografico, e da una progressiva affermazione delle libertà individuali.[2]
Di fronte all’evidenza delle ricerche storiche[3] e statistiche[4], l’affermazione secondo cui la Rivoluzione Industriale avrebbe prodotto un peggioramento del tenore di vita delle masse non viene più sostenuta a livello storiografico neanche tra gli studiosi di orientamento socialista, i quali si limitano ormai ad affermare che il “peggioramento” va inteso in termini più relativi che assoluti; che fu un fatto più psicologico che materiale;[5] o che i benefici si manifestarono in un momento successivo, grazie soprattutto alla legislazione sociale dello Stato o alle conquiste sindacali. In realtà le condizioni dei lavoratori di fabbrica furono fin da subito, e progressivamente con sempre maggior evidenza, infinitamente preferibili a quelle delle precedenti masse contadine o artigiane. Gli operai salariati erano lavoratori liberi, che volontariamente si trasferivano dalle campagne e dalle botteghe artigiane nei nuovi stabilimenti industriali: nessuno, se non un imprenditore che offriva loro paghe più alte e condizioni di lavoro migliori, avrebbe potuto indurli ad abbandonare i vecchi modi di vita caratteristici della società preindustriale.
Ancor più importante fu però l’incredibile incremento demografico reso possibile dall’aumento della produzione. Una corretta analisi, infatti, deve inserire nel calcolo non solo il miglioramento delle condizioni di vita, ma anche l’aggiunta di milioni di persone che altrimenti non sarebbero mai potute sopravvivere, o che non sarebbero mai nate, perchè non sarebbero nati neanche i loro progenitori! Il capitalismo ha creato il proletariato nel senso letterale della parola, cioè dandogli la vita. Come ha spiegato Friedrich von Hayek, «solo quando i maggiori guadagni derivanti dall’impiego di macchinario procurarono sia i mezzi sia la possibilità di investimenti, balenarono possibilità di sopravvivenza per un numero sempre maggiore di quanti in passato rappresentavano un ricorrente eccesso di popolazione condannata a morte prematura. La popolazione, che era rimasta praticamente stazionaria per molti secoli, cominciò ad aumentare rapidamente. Il proletariato che si può dire sia stato una “creazione del capitalismo” non era dunque una parte di popolazione che sarebbe esistita senza di esso e che il capitalismo aveva degradato ad un livello inferiore; era invece una popolazione addizionale alla quale veniva data la possibilità di crescere grazie alle nuove opportunità di impiego fornite dal capitalismo. Se è vero che lo sviluppo del capitale rese possibile l’apparizione del proletariato, lo è nel senso che aumentò la produttività del lavoro, cosicchè un numero maggiore di coloro i quali non erano stati forniti dai loro genitori dei necessari strumenti di produzione furono posti in condizione di mantenersi con il solo lavoro».[6]
Contrariamente alla vulgata socialista, ad alleviare le condizioni di lavoro e a mettere fine al lavoro minorile e femminile non fu certo il potere politico, ma il successo stesso del capitalismo industriale, che riuscì ad aumentare il potere di acquisto delle famiglie e, di conseguenza, a creare per la prima volta una “domanda” di tempo libero. La legislazione pubblica, infatti, raramente fu innovativa, e si limitò a sanzionare una situazione già raggiunta nella pratica. Delle due, infatti, l’effetto della legislazione delle fabbriche fu più negativa che positiva sulle condizioni di vita dei lavoratori, perché sottrasse loro molte chance di veder incrementare il loro reddito. Questa legislazione fu infatti più l’effetto della “crociata antifabbriche” promossa dai tories, in genere proprietari terrieri che volevano conservare il precedente assetto sociale pre-rivoluzione industriale, che non delle richieste delle trade unions e delle classi lavoratrici, che, come vedremo, rimasero per quasi tutto l’Ottocento fedeli al principio della non ingerenza dello Stato nei rapporti di lavoro.
Alcuni storici hanno documentato gli effetti negativi di questi provvedimenti, spesso contestati dai lavoratori stessi. Come ha evidenziato il prof. Hutt, «nei limiti in cui i lavoratori di allora avevano la possibilità di “scelta tra benefici alternativi”, essi sceglievano le condizioni che i riformatori condannavano. Non solo i salari più alti li inducevano a preferire il lavoro in fabbrica ad altre occupazioni, ma, come ammisero alcun riformatori, quando una fabbrica riduceva le ore di lavoro, tendeva a perdere i propri operai, in quanto essi andavano a prestare la loro opera in quegli stabilimenti in cui potevano guadagnare di più». Per questa ragione «gli sforzi per migliorare le fabbriche dovevano esser condotti sfidando l’opposizione di quegli stessi lavoratori cui si intendeva recare vantaggio. Gli orari lavorativi più brevi non furono ottenuti senza sacrifici; si può dire che essi furono acquistati dai lavoratori con la loro accettazione di salari inferiori, e dalla comunità in termini di riduzione di produttività».[7]
L’attacco a questo nuovo sistema capitalistico-liberale non partì quindi, come spesso si crede, dal campo proletario, ma da quello conservatore, la cui ipocrita preoccupazione per le condizioni delle masse, fino allora considerate con disprezzo, era in realtà funzionale al ritorno puro e semplice al passato. Al contrario, durante il ‘700 e per buona parte dell’800 la classe dei lavoratori manuali sosteneva le politiche del laissez-faire, ben viste non solo perché riducevano il costo dei beni di consumo e accrescevano la domanda di lavoro, ma anche perché erano considerate misure “livellatrici” dei privilegi goduti dalle classi aristocratiche dominanti. Solo in un momento successivo il punto di vista dei tories, e non quello dei radicali o dei liberali, finì con il prevalere tra gli intellettuali e tra le classi lavoratrici. I movimenti socialisti ed operai si biforcarono infatti in due filoni: da una parte il socialismo antistatalista, liberista e libertario, diretto erede delle idee dei livellatori, di Tom Payne, e dei radicali settecenteschi, e dall’altra il socialismo di Stato – nelle sue varianti socialdemocratiche, marxiste e anche, malgrado tutto, bakuniniane[8] – inizialmente minoritario ma progressivamente dominante.
Il socialismo statalista nacque intorno agli anni ’30 dell’800, si espanse rapidamente dopo gli anni ’80 e, a seguito della rivoluzione sovietica del 1917, rimase l’unico in campo per tutto il XX secolo, tanto da finire identificato con il socialismo tout court. Esso si caratterizzò fin da subito, a differenza del socialismo antistatalista, come un movimento ibrido e contraddittorio, in quanto influenzato da entrambe le ideologie contrapposte allora esistenti: il liberalismo e il conservatorismo. Del primo accolse i fini, del secondo utilizzò i mezzi. Come i liberali, i socialisti di Stato espressero infatti una devozione, pur solo retorica, alla pace, alla libertà, al benessere, alla scienza, alla ragione, e al progresso industriale; dai conservatori ereditarono invece una fiducia illimitata nell’espansione statale e nella coercizione per il raggiungimento dei propri scopi.[9]
La scomparsa dei regimi socialisti a statalismo integrale e la crisi inarrestabile delle socialdemocrazie a statalismo parziale impongono la riscoperta di quelle forme di socialismo che, nel secolo scorso e fino ai primi del ‘900, si proponevano il miglioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici attraverso l’intensificazione della libera concorrenza e la lotta accanita all’interventismo governativo. Al termine della lunga notte statalista del XX secolo i movimenti di sinistra che stanno tentando di rinnovare il proprio bagaglio ideologico dovrebbero recuperare l’eredità di questi filoni dimenticati del socialismo liberista e libertario, che ora andremo a ripercorrere.
- IL LIBERALISMO OPERAIO NELL’INGHILTERRA VITTORIANA
Storicamente l’Inghilterra fu il primo paese in cui si affermarono movimenti operai e sindacali portatori di un programma libertario – cioè antistatalista, pacifista, liberoscambista, favorevole a drastiche riduzioni delle imposte e della spesa pubblica – la cui egemonia rimase indiscussa per tutto il periodo vittoriano.[10] «Durante il diciottesimo secolo e fino alla fine del diciannovesimo», ricorda Murray N. Rothbard, «la massa degli operai era a favore del laissez-faire e del libero mercato, ritenuti condizioni positive per i loro interessi, sia come lavoratori che come consumatori. Anche i primi sindacati, ad esempio quelli della Gran Bretagna, erano convinti sostenitori del laissez-faire».[11]
Gli storici marxisti hanno avuto sempre un certo imbarazzo a spiegare “l’anomalia” di un movimento operaio organizzato, come quello inglese, che era compattamente liberale. Tuttavia l’appoggio popolare per il Partito di Gladstone non aveva nulla di irrazionale né negli obiettivi né nelle motivazioni; al contrario, la sua diffusione era dovuta al fatto che il programma delle riforme proposte dai leader del Partito liberale offriva una convincente soluzione ai problemi che in quel tempo sembravano più reali e urgenti alla grande massa dei lavoratori: come ha spiegato Eugenio Biagini, il liberalismo operaio del periodo medio-vittoriano non rappresentava il risultato di una campagna ideologica di successo portata avanti dai ceti borghesi, ma era invece la continuazione di tradizioni politiche molto più antiche e autenticamente popolari. La maggior parte degli ingredienti del liberalismo gladstoniano – come l’ostilità all’intervento dello Stato, il libero scambio, e l’anticlericalismo – erano infatti già presenti in movimenti popolari del ‘600 (i livellatori) e del ‘700 (i radicali plebei fin dai tempi di Thomas Paine). Anche il cartismo, il movimento operaio sorto nei primi decenni dell’800, aveva forti continuità con il radicalismo del ‘700, perché la sua ideologia era quella di “Locke e Adam Smith, vista attraverso gli occhi di Godwin”, basata su “diritti naturali” e comprendente il diritto “del produttore alla sua proprietà, il frutto del suo lavoro”.[12] Come ha osservato lo storico T.C. Smout, sarebbe un errore ravvisare nel movimento cartista l’incarnazione di una qualche aspirazione popolare per il socialismo, dato che “il mondo della prima età vittoriana era ancora lontano dal pensare a un qualsiasi tipo di intervento dello Stato come una cosa buona, tranne che in circostanze eccezionali. Il cartismo concerneva la libertà e il self-help politico della gente che agiva collettivamente”.[13]
Tutta la costruzione ideologica di questi movimenti liberal-popolari ruotava attorno alla contrapposizione tra il Popolo e il Privilegio, cioè tra la gente comune da una parte e gli aristocratici dall’altra. I radicali plebei usavano il termine di “Popolo”, e non di “Classe”, perché a questo gruppo appartenevano potenzialmente tutti coloro (artigiani indipendenti, piccoli imprenditori, commercianti, lavoratori) che erano esclusi dal privilegio e dal “monopolio” aristocratico. La loro “lotta di classe” non era la guerra del proletariato contro i capitalisti, ma piuttosto la lotta della “Nazione dei produttori” – che comprendeva sia gli imprenditori che i lavoratori – contro l’aristocrazia terriera e i privilegiati dello Stato. I movimenti operai inglesi dell’800 non erano motivati da odio contro gli imprenditori, perché pensavano che gli interessi fondamentali di imprenditori e operai coincidessero, ed erano consapevoli dell’importanza di preservare i profitti di questi ultimi come requisito di prosperità economica.[14] Le dottrine propagandate da Marx nella Prima Internazionale erano liquidate dai ceti operai inglesi come “ridicole follie”, che potevano avere un qualche seguito nei regimi reazionari dell’Europa continentale, ma non certo nei paesi più liberi come gli Stati Uniti o l’Inghilterra. Secondo molti leader radicali inglesi del tempo (come Lloyd Jones, Holyoake, e Odger, che finirono tutti col rompere con la Prima Internazionale) le “grottesche” idee di Marx erano propagandate in Inghilterra dalle stampa conservatrice allo scopo di mettere in cattiva luce le classi lavoratrici, le quali in cuor loro respingevano con scherno e derisione tali “rabbiose scemenze”.[15]
Al disprezzo per le idee di Marx si contrapponeva l’immensa popolarità, tra le classi lavoratrici inglesi, del libero scambio, il sistema che “non pone fardelli sul povero che si da fare”, apprezzato per le sue implicazioni antiaristocratiche, antifeudali, anticlericali, antimilitariste e internazionaliste. La Lega contro il protezionismo sul grano lanciata da Richard Cobden e John Bright era notoriamente un movimento delle classi medie e inferiori, composta per la maggior parte da coloro che formavano anche i quadri del radicalismo plebeo e del cartismo.[16] Il protezionismo veniva identificato dal popolo con l’aristocrazia e il Partito conservatore: era “il tentativo dei signori della terra di ingannare i senza-terra”. Per il giornale operaio “Labour Standard” il protezionismo era equivalente al “dispotismo zarista” e al “governo cosacco”[17], ed era anche controproducente: il “Co-operative News”, giornale delle cooperative operaie, affermava: «La si chiami tariffe punitive, o la si chiami politica suicida – perché tale è il nome giusto – niente di buono può venire dalla Protezione. In Francia – la Francia protezionista, la terra degli incentivi di produzione per lo zucchero – ci sono tumulti per il pane. Tumulti di questo tipo erano abbastanza frequenti in questo paese circa 50 anni fa…la Protezione significa solo il bene dei pochi a spese dei molti».[18]
Il principio alla base della crociata contro i dazi doganali era che i poveri “avevano moralmente diritto a cibo a basso prezzo in cambio del sudore della loro fronte”, e per tale ragione tutta la letteratura popolare degli anni ’50 dipingeva gli avversari delle Corn Laws come degli eroi[19]: Joseph Arch, il leader dei braccianti agricoli, nella sua biografia descriveva il padre come un martire della resistenza popolare al protezionismo, ed esortava di ringraziare Dio per Cobden e Bright perchè “Il frutto della loro opera lo si è visto in migliaia di case che hanno ricevuto la benedizione della pagnotta a poco prezzo”[20]. Ad un livello politico più generale il libero scambio era visto negli anni ’60 dell’800 come uno spirito benefico che si aggirava per l’Europa, scuotendo i decrepiti dispotismi, illuminando come un raggio di luce e di speranza i popoli che ad esso si aprivano, portando ovunque prosperità, pace, comprensione reciproca, integrazione economica. Quella che oggi viene definita con sospetto “globalizzazione” era invece accettata con entusiasmo dai leader delle classi popolari inglesi dell’800, i quali non si stancavano di sottolineare l’urgenza di estendere i trattati di libero scambio con gli altri paesi, e di persuadere gli stranieri ad abbattere le imposte sui generi alimentari, considerate la causa principale dei tumulti popolari e della diffusione del socialismo rivoluzionario nel continente europeo.[21]
All’interno del paese il principio del libero scambio implicava necessariamente la totale neutralità dello Stato rispetto al mercato del lavoro, che le Trade Unions, le società operaie, e le cooperative rivendicarono sempre con forza. Quello che oggi può apparire strano non lo era affatto per la mentalità dei sindacati del tempo. Ad esempio, nelle richieste che fecero al governo nel 1869, i lavoratori si vantavano del fatto che il loro principio guida era stato “semplicemente quello che ha conseguito cento trionfi, e a cui è difficilmente rimasto altro campo da conquistare a parte questo – il principio della rimozione dell’interferenza statale nell’industria”. Di consegueza, il Bill governativo emanato nel 1871 su tali questioni venne criticato dai tradeunionisti non perché ispirato ad un rigido laissez-faire, ma perché vi si ispirava troppo poco![22] Diversamente da oggi, il movimento sindacale di allora si batteva per “l’uguaglianza perfetta di fronte alla legge” e non per ottenere privilegi speciali; il manifesto programmatico delle Trade Unions del 1871 recitava infatti: «Non chiediamo privilegio alcuno – nessuna esenzione; ma protestiamo contro qualsiasi legislazione eccezionale per i sindacati come tali; dateci protezione sotto la legge, e rendeteci punibili sotto la legge, come cittadini di uno Stato libero; non chiediamo niente di più e non ci accontenteremo di niente di meno».[23]
Anche la linea ufficiale delle cooperative e delle società operaie di mutua assistenza, in aderenza ai dettati del self-help (la letteratura che indicava alle classi popolari il “far da sé”, l’impegno indefesso, e il rigore morale come mezzo di autorealizzazione personale, diffusa con successo da Samuel Smiles[24]), era quella di considerare l’accettazione o la richiesta di assistenza pubblica come un errore politico e una causa di degradazione morale. I manager delle società operaie polemizzavano di frequente con i filantropi che sostenevano l’intervento pubblico, e condannavano aspramente le misure assistenziali emanate dai governi come manovre delle classi dirigenti per evirare le società mutualistiche operaie. Il giornale operaio Bee-Hive del 19 marzo 1864 scrisse ad esempio: «Ripudiamo qualsiasi interferenza governativa con le associazioni dei lavoratori, credendoli sufficientemente capaci, onesti e intelligenti da controllare i loro affari senza l’aiuto di funzionari del governo e di burocrati».[25]
Come riconobbe il parlamentare Stanhope, i lavoratori che si iscrivevano ad una società di mutua assistenza lo facevano perché sentivano che essa era qualcosa che apparteneva a loro, che era sotto il loro controllo, e tale incentivo sarebbe stato distrutto dall’intervento statale. I membri delle società operaie e artigiane di mutua assistenza ritenevano che esse fossero «così ben amministrate dal popolo stesso che non si vedeva come il governo potesse assumere parte alcuna della loro amministrazione»[26]. Per questa ragione, spiegavano i dirigenti delle associazioni dei lavoratori, «le società oneste e solventi che gli operai hanno diretto con successo per mezzo secolo non hanno per niente bisogno di legislazione. Tutto ciò che vogliono è essere liberate dalle catene messe loro addosso dalla legge, ed essere lasciate in pace ad attuare quella dottrina della libertà di contratto che trova tanto favore tra le classi superiori».[27]
Un’altra pressante richiesta proveniente dai movimenti operai dell’epoca vittoriana era quella della drastica riduzione delle tasse e della spesa pubblica, perchè, riecheggiando le teorie quasi anarchiche dei levellers e di Tom Paine, essi pensavano che se il paese era in pace e l’economia era sana i servizi dello Stato non erano necessari e i suoi apparati avrebbero dovuto essere virtualmente smantellati[28]. Le spese del governo non offrivano al popolo “nient’altro che debiti, tasse, doveri e difficoltà commerciali”[29], perché finalizzate soprattutto a provvedere ai bisogni di una macchina politico-militare devota alla guerra in politica estera, alla repressione in patria, e in generale al mantenimento di vasti gruppi di parassiti che “razziavano la pubblica borsa”: l’esercito, la marina, la polizia, il servizio diplomatico, l’appannaggio per la Corona e tutte le altre istituzioni dello Stato che “hanno come vero scopo la concessione di pubblica assistenza ai figli cadetti, ai parenti poveri, e ai favoriti dell’aristocrazia”[30]. Il paese, dicevano i radicali plebei, era “sovraggovernato dalla legge e sovrarregolato dalla polizia”, c’era ovunque spreco organizzato, e il denaro finiva in tasca a “degli oziosi che, se non fosse per quella spesa, sarebbero lavoratori produttivi”; infatti «è chiaro come un teorema di Euclide che il lavoro e la fonte dell’industria sono la fonte di ogni ricchezza; ma se 85 milioni dei guadagni dei lavoratori devono essere dedicati a mantenere soldati fannulloni, navi da guerra inutili, e un’armata di impiegati pubblici, tutti quanti non-produttori, possiamo solo porci una semplice domanda: quanto tempo ci vorrà prima che i non-produttori si mangino i produttori?».[31]
Radicata tra la gente comune era dunque l’opinione che tutte le tasse, sia dirette che indirette, tendessero a limitare i consumi popolari, a ridurre il capitale, e di conseguenza a ridurre la domanda di lavoro e l’occupazione; al contrario, “una tassazione leggera – a parità di cose – implicava un’industria libera dai ceppi, un commercio ricco di iniziativa e di profitto, un popolo ben nutrito, ben vestito e ben istruito”.[32] Il primo nemico del benessere pubblico era quindi rappresentato da un governo prodigo e spendaccione, mentre tutte le vere repubbliche libere erano anche economiche, come dimostravano gli esempi degli Stati Uniti e della Svizzera, i due paesi più ammirati dai radicali plebei. La Confederazione elvetica non aveva «né tasse per i poveri, né case di lavoro, né re, né aristocrazia, né alcuna delle istituzioni che materialmente tendono ad impoverire un popolo…La Svizzera non ha debito pubblico; il suo popolo è felice, prospero e contento. Non c’è grande agitazione politica, semplicemente perché non c’è causa alcuna per l’esistenza dei partiti politici».[33]
Gli Stati Uniti, nell’immaginazione popolare, avevano molto in comune con la Svizzera, ma il miraggio della Frontiera attirava l’ammirazione della gente comune molto più di quanto potesse fare la piccola Confederazione elvetica chiusa tra le sue montagne. Queste parole del liberale John Bright, che acquisì in quegli anni un ascendente straordinario sulle classi lavoratrici, esemplificano al meglio l’idea che le masse popolari avevano della “Grande repubblica del West”: «il Privilegio pensa di avere molto in gioco in questa lotta, ed ogni mattina scende per le strade a gridare maledizioni contro la Repubblica americana. Il Privilegio ha contemplato uno spettacolo affliggente per molti anni. Ha contemplato trenta milioni di uomini felici e prosperi, senza imperatore, senza re, senza il contorno di una corte, senza nobili tranne quelli che sono creati dall’eminenza dell’intelletto e nelle virtù, senza vescovi di Stato e senza preti di Stato, senza grandi eserciti e senza grandi flotte, senza grandi debiti e senza grandi tasse. Il Privilegio ha tremato al pensiero di ciò che potrebbe accadere se questo grande esperimento dovesse aver successo. Ma voi, lavoratori che aspirate a tempi migliori, non avete motivo per guardare con gelosia ad un paese che è l’unico nel quale il lavoro è onorato sopra ogni cosa, e dove ha raccolto la più elevata ricompensa».[34]
In un ambiente sociale come quello appena descritto, in cui gli individui godevano di ampie opportunità e il lavoro della massima libertà, molto difficilmente avrebbe potuto attecchire il socialismo statalistico o collettivistico. Non a caso, i movimenti del lavoro autenticamente americani si trovarono spesso in polemica con i gruppi socialisti immigrati dall’Europa, in quanto portatori di idee e indirizzi estranei alla propria mentalità. Questo atteggiamento si manifestò con la massima evidenza tra gli anarchici americani, in prima fila nelle lotte operaie pur senza mai rinnegare il proprio credo radicalmente individualista.
- TUCKER E GLI ANARCHICI INDIVIDUALISTI AMERICANI
Nell’800 gli abitanti degli Stati Uniti consideravano il proprio paese come un vasto laboratorio di sperimentazione sociale, ma a differenza che in Europa i fermenti riformatori assunsero fin da subito spiccati caratteri libertari, del tutto diversi dal sovversivismo rivoluzionario che sconvolgeva il vecchio continente. Tutti i movimenti radicali americani autoctoni, spesso in conflitto con le ideologie portate dai fuoriusciti europei nel Nuovo Mondo, si mantennero infatti sempre fedeli agli enunciati della Dichiarazione d’Indipendenza, che riconosceva ad ogni uomo il diritto inviolabile alla vita, alla libertà, e alla ricerca della felicità. I radicali americani consideravano la nascita stessa degli Stati Uniti, in cui trovavano attuazione le concezioni individualiste di Jefferson, di Paine, e dei Founding Fathers, come il non plus ultra dell’idea rivoluzionaria, e la soluzione dei mali sociali si trovava nel ritorno a quell’ispirazione originaria.
I movimenti socialisti e del lavoro americani nacquero quindi in un contesto sociale differente da quello europeo, e per questa ragione si svilupparono in maniera del tutto autonoma. In particolare l’ala più radicale del variegato mondo dei radicali americani, quella anarchica, non stabilì mai formali contatti di alcun tipo con movimenti anarchici di altre parti del mondo[35]. Gli anarchici statunitensi, infatti, detestavano profondamente gli obiettivi e i mezzi – l’odio di classe, la violenza, il terrorismo, l’eversione – dei rivoluzionari europei, considerati una conseguenza di odiose storture politico-sociali del tutto assenti in quell’America che, bene o male, rappresentava pur sempre il paese in cui si era compiuta la più grandiosa rivoluzione della storia dell’uomo.[36] Oltre a questi fattori ideologici influirono sull’anarchismo americano anche le particolari condizioni storico-economiche del tempo, perché il grandioso fenomeno spontaneo della colonizzazione della Frontiera offriva un esempio di come gli individui potessero organizzarsi liberamente senza bisogno di ricorrere al governo centrale. La ricca, libera e vitale società del Far West appariva come la conferma del successo dell’idea libertaria.[37]
Josiah Warren fu il precursore dell’anarchismo individualista americano, e altri importanti esponenti furono Ezra Heywood, William Greene, Joshua Ingalls, Stephen Pearl Andrews, Lysander Spooner e Benjamin Tucker. A partire dagli anni ‘80 dell’800 e per circa due decenni la rivista Liberty di Tucker divenne il punto di riferimento del movimento, la cui posizione ideologica si fondava sulla sovranità dell’individuo, sul principio dell’eguale libertà, sulla difesa dei diritti di proprietà derivanti dal lavoro, sulla lotta accanita ai privilegi speciali e ai monopoli in nome della piena e libera concorrenza in tutti i campi, sull’esaltazione del libero mercato, e sulla necessità di abolire ogni forma di tassazione, e con essa lo Stato.
Oggi queste posizioni verrebbero giudicate molto vicine al liberalismo integrale dei libertarians americani, se non addirrittura all’anarco-capitalismo di Murray N. Rothbard o David Friedman, i quali non a caso hanno in più occasioni riconosciuto il proprio debito intellettuale nei confronti della tradizione individualista ottocentesca.[38] In realtà la maggior parte degli anarchici individualisti si consideravano prima di tutto dei socialisti, e la loro maggiore preoccupazione era rappresentata dalla “questione del lavoro”. Essi credevano fermamente nella teoria del valore-lavoro e polemizzavano aspramente contro la classe borghese. Nello stesso tempo, però, essi si consideravano agli antipodi rispetto ai socialisti di Stato, e ritenevano che la liberazione del proletariato potesse realizzarsi mediante politiche opposte a quelle propugnate dai collettivisti.
Emblematico fu il caso di Benjamin Tucker, l’esponente più rappresentativo di questa scuola, i cui scritti prenderemo maggiormente in considerazione perchè riassumono e chiarificano ottimamente l’intera elaborazione intellettuale che gli anarco-individualisti andarono producendo per quasi un secolo. Anche Tucker, infatti, si collocò sempre all’interno del movimento socialista, e lottò per tutta la vita in nome dei diritti dei lavoratori. I maestri che citava con più ammirazione, come Proudhon, erano quasi tutti pensatori socialisti; nelle sue pagine la parola capitalismo assumeva inevitabilmente connotati negativi; lo Stato veniva visto come lo strumento con cui le classi abbienti si garantivano ingiusti privilegi; il profitto veniva paragonato all’usura, perchè impediva ai lavoratori di godere dell’intero prodotto del loro lavoro; negli scontri sociali del tempo si schierò sempre con decisione a fianco degli operai in sciopero, dei manifestanti, dei nemici dell’autorità costituita.
Tuttavia, lungi dall’essere un rivoluzionario radicale, un sostenitore della lotta di classe, della dittatura del proletariato, o della socializzazione dei mezzi di produzione, egli svolse sulle pagine di Liberty una critica al marxismo e a tutte le altre forme di socialismo statalista ben più diretta ed efficace di tante altre provenienti dal campo opposto. I suoi argomenti a difesa della libertà individuale, della proprietà e del libero scambio superarono, per intransigenza e coerenza, quelli avanzati dai numerosi “moderati” liberali del tempo, spesso conniventi con regimi conservatori, protezionisti o militaristi.
Secondo Tucker le due correnti estreme del Socialismo Moderno, il Socialismo di Stato e l’Anarchismo individualista, «benchè unite dalla comune rivendicazione del diritto dei lavoratori al prodotto del loro lavoro»,[39] erano «diametralmente opposte tra loro sui metodi e sui principi», perché gli anarchici individuavano nei monopoli, nei privilegi legali, e nelle limitazioni della concorrenza la vera causa della situazione di svantaggio dei lavoratori: «il solo modo per assicurare al lavoro il godimento del suo intero prodotto, o salario naturale, è quello di abbattere il monopolio. E’ proprio a questo punto – la necessità di distruggere il monopolio – che le strade si sono separate. I socialisti si accorsero che dovevano imboccare o la via di destra o la via di sinistra, cioè la via dell’Autorità o quella della Libertà. Marx prese la prima; Warren e Proudhon la seconda. In questo modo sono nati il Socialismo di Stato e l’Anarchismo…Il primo dei due, il Socialismo di Stato, può essere descritto come la dottrina secondo la quale tutti gli affari umani debbono essere gestiti dal governo, senza tener conto delle scelte degli individui. Marx, il suo fondatore, giunse alla conclusione che l’unico modo per abolire i monopoli di classe fosse quello di centralizzare e consolidare tutti gli interessi industriali e commerciali, tutte le imprese produttive e distributive, in un unico vasto monopolio nelle mani dello Stato. Il governo deve diventare banchiere, industriale, agricoltore, trasportatore e mercante, e in queste attività non deve tollerare la concorrenza di nessuno…La nazione sarà trasformata in un’immensa burocrazia, e ogni individuo in un funzionario pubblico…Ogni uomo diventerà un salariato, e lo Stato l’unico datore di lavoro. Chi non lavorerà per lo Stato patirà la fame o, più probabilmente, finirà in prigione. Ogni libertà di commercio dovrà scomparire. La concorrenza dovrà essere completamente spazzata via. Tutte le attività commerciali e industriali dovranno essere centralizzate in un unico, vasto, enorme, onnicomprensivo monopolio. Il rimedio per i monopoli è il monopolio….In questo modo l’Autorità raggiungerà il suo acme e il monopolio sarà portato al suo massimo potere…Questo è l’ideale cui logicamente giunge il Socialismo di Stato, questo è l’esito finale della strada imboccata da Karl Marx».
«Seguiamo ora Warren e Proudhon – continua Tucker – i quali scelsero l’altra strada, quella della Libertà: questa ci porta all’Anarchismo, che può essere descritto come la dottrina secondo cui tutti gli affari umani dovrebbero essere gestiti dagli individui o dalle associazioni volontarie, e che lo Stato dovrebbe essere abolito…Quando Warren e Proudhon, proseguendo la loro ricerca della giustizia nel lavoro, si trovarono di fronte l’ostacolo dei monopoli di classe, si accorsero che questi monopoli erano basati sull’Autorità, e conclusero che la cosa da fare fosse non quella di rafforzare questa Autorità e rendere il monopolio universale, ma di sradicarla completamente e di dare pieno dominio al principio opposto, la Libertà, rendendo universale la concorrenza, l’antitesi del monopolio. Essi videro nella concorrenza la grande livellatrice dei prezzi al costo del lavoro di produzione, e in questo concordavano con gli economisti…. E così innalzarono la bandiera dell’assoluta libertà di commercio; libero commercio sia all’interno che verso i paesi esteri; la dottrina machesteriana portata alle sue logiche conseguenze; laissez faire come regola universale. Sotto questa bandiera essi iniziarono la loro lotta contro i monopoli, sia il monopolio totale dei Socialisti di Stato, che i monopoli di vario tipo che esistono oggi».
Secondo gli anarchici individualisti, dunque, le classi capitaliste (definite come casta politica e non come classe economica) erano favorite non dai meccanismi della libera economia concorrenziale, ma, all’opposto, dalla manipolazione della legislazione e dall’uso del potere politico: «Noi facciamo guerra allo Stato perché è il principale aggressore delle persone e delle proprietà, perché è sostanzialmente responsabile di tutto il crimine e di tutta la miseria che esiste, e perché è esso stesso il più gigantesco criminale esistente. Esso esiste solo per creare e sostenere i privilegi che producono il caos economico e sociale. Esso è il solo supporto dei monopoli che concentrano ricchezze e conoscenze nelle mani dei pochi e disperdono la povertà e l’ignoranza tra le masse, incrementando quell’ineguaglianza che è direttamente proporzionale all’aumento della criminalità. Esso protegge una minoranza che saccheggia la maggioranza con metodi così sottili da non essere compresi dalle vittime stesse».[40]
Lo Stato rappresentava quindi il mezzo con cui le classi privilegiate si assicuravano innumerevoli privilegi e monopoli legali, tra i quali Tucker ne individuava quattro principali: il monopolio del credito, della terra, delle tariffe, e dei brevetti. Le classi “capitaliste”, disponendo delle leve dell’apparato di governo, potevano così impedire la libera concorrenza nell’attività bancaria (il cosiddetto free-banking), impedire il libero accesso alle terre non occupate, imporre dazi a proprio favore, proteggere illimitatamente gli inventori dall’altrui concorrenza. Come conseguenza, il costo del denaro, degli affitti, dei prodotti di consumo, e dei beni industriali veniva tenuto artificialmente alto, a scapito dei lavoratori, degli imprenditori, degli artigiani, e in generale delle classi meno abbienti, ai quali queste imposizioni stataliste sottraevano una buona parte del valore di mercato del proprio lavoro.
Per rimediare al loro svantaggio legale i lavoratori non dovevano però far uso di metodi violenti o richiedere privilegi legali, perché, pretendendo di fare ciò che contestavano ai loro sfruttatori si sarebbero messi dalla parte del torto. Le idee di Tucker sulla libertà di lavoro erano chiare: “se un uomo ha lavoro da vendere, egli deve avere anche il diritto ad un libero mercato in cui venderlo, senza essere impedito da leggi restrittive…Se l’uomo che vuole vendere la propria attività lavorativa non dispone di questo libero mercato, allora la sua libertà è violata e la sua proprietà virtualmente espropriata. Oggi questo mercato viene costantemente negato nell’intero mondo civilizzato. E gli uomini che lo negano sono gli Andrew Carnegie. I Capitalisti, di cui questo padrone delle ferriere di Pittsburgh è il tipico rappresentante, hanno ottenuto, e cercano di far mantenere in vigore, una legislazione contenente ogni sorta di proibizioni e tasse (tra le quali le imposte doganali sui prodotti esteri sono forse le meno dannose) finalizzate a restringere il numero di coloro che desiderano acquistare lavoro. Se non ci fossero tariffe sui beni importati; se i titoli di proprietà sulla terra non occupata non fossero riconosciuti dallo Stato; soprattutto, se il diritto di emettere moneta non fosse stato monopolizzato – coloro che potrebbero offrire lavoro diventerebbero così numerosi da doversi contendere i lavoratori attualmente impegnati preso Carnegie….Occorre quindi dire ai capitalisti che il lavoratore ha diritto al libero mercato, e che loro, negandoglielo, sono colpevoli di aggressione criminale»[41].
È evidente dunque che il “capitalismo” contro cui si scagliavano gli anarco-individualisti non era quello del laissez-faire criticato da Marx, ma il capitalismo supportato dallo stato. In questo modo essi potevano permettersi, a buon ragione, di accusare d’incoerenza i liberali del loro tempo, i quali elogiavano a parole la concorrenza, mai poi si rifiutavano di applicarla nei settori più nevralgici, quali ad esempio quelli dei servizi pubblici, dell’emissione monetaria, e della sicurezza. Poteva così accadere che due campioni del liberalismo come William Graham Sumner e Herbert Spencer venissero accusati di statalismo dal “socialista” Tucker: «Ti chiedo di nuovo, professor Sumner: sei tu disposto ad accettare che l’individuo sia lasciato in pace nell’esercizio del suo diritto di creare la sua propria moneta e di offrirla in un mercato aperto a tutti coloro che desiderano utilizzarla? Tu attacchi quella forma di socialismo di Stato conosciuta come protezionismo con un vigore ineguagliabile, ma privi di valore queste tue critiche sostenendo o incoraggiando quelle forme di Socialismo di Stato chiamate tassazione coercitiva e monopolio bancario. Tu inveisci senza pietà contro i comunisti Marx e Most, ma non protesti contro le più dannose manifestazioni della loro filosofia. Perché questo comportamento confusionario? Deciditi in un senso o nell’altro: diventa un Socialista di Stato e denuncia la libertà sempre e ovunque, oppure diventa un Anarchico e denuncia l’autorità sempre e ovunque; in caso contrario devi accettare di essere considerato per quel che appari essere: un ibrido impotente».
Anche il liberale Herbert Spencer – continuava Tucker – «ha attaccato il socialismo come l’incarnazione della dottrina dello Stato onnipotente portata al suo massimo grado, ma non sono sicuro l’abbia fatto con onestà. Sembra che egli abbia dimenticato i suoi scritti di una volta, e che sia diventato un sostenitore della classe capitalistica. Nei suoi ultimi scritti, infatti, egli dimostra il fallimento delle leggi finalizzate a proteggere il lavoro, ad alleviare le sofferenze, o a promuovere il benessere del popolo. Egli però non si cura neanche per una volta a quei mali ben più dannosi e radicati che nascono dalle numerose leggi che creano il privilegio e sostengono i monopoli…Egli è scandalizzato del fatto che il ricco sia tassato per sostenere il povero, ma che il povero sia indirettamente tassato e dissanguato per rendere il ricco ancor più ricco non urta la sua delicata sensibilità. Le leggi a favore dei poveri aumentano la povertà, dice Mr. Spencer: siamo d’accordo. Ma che dire allora della povertà causata dalle leggi a favore dei ricchi, alla quale la miseria causata dalle leggi per i poveri va semplicemente ad aggiungersi? Stephen Pearl Andrews ha dimostrato che Mr. Spencer non è il filosofo del laissez-faire che pretende di essere; che i soli veri credenti nel laissez-faire sono gli anarchici; e che, sebbene il socialismo di Stato sia pericoloso e tirannico proprio come lo dipinge Mr. Spencer, vi è una forma più alta e nobile di socialismo che non solo non conduce alla schiavitù, ma che rappresenta invece l’unico mezzo per uscire da ogni tipo o grado di servitù…Quando i miei interlocutori parlano di socialismo, a mio avviso essi intendono riferirsi al socialismo di Stato e al nazionalismo, e non al socialismo anarchico che la rivista Liberty rappresenta. Socialismo di Stato e nazionalismo, infatti, significano nient’altro che totale distruzione della libertà umana e della proprietà privata».[42]
Il programma giusto per migliorare la sorte dei lavoratori lavoro era quello di favorire vasti programmi di destatalizzazione delle poste, delle ferrovie e dei telegrafi, affinchè il servizio potesse essere offerto a prezzi di costo e non a prezzi monopolistici, e di liberalizzazione in tutti i campi. Bisognava inoltre riconoscere ad ogni individuo il diritto naturale di battere moneta privata, cioè di emettere dei pagherò che potevano liberamente circolare sulla base della fiducia che gli altri individui riponevano sulla loro solvibilità. Gli anarchici individualisti consideravano infatti la moneta statale come una “moneta di classe”, perché non rappresentava la proprietà di tutti, ma solo di coloro che la emettevano: in pratica, i detentori del privilegio di battere moneta potevano tassare a piacimento tutti coloro che avevano bisogno di denaro per lavoro o commercio.
Infine, similmente ai moderni anarco-capitalisti, Tucker affermava che anche la protezione doveva essere acquistata non obbligatoriamente presso lo Stato, ma su basi volontarie presso coloro che offrivano il servizio migliore al prezzo più basso.[43] Dopo Gustave de Molinari e prima di Murray N. Rothbard, il “socialista” Tucker è stato dunque, in ordine di tempo, il secondo pensatore della storia ad aver teorizzato la privatizzazione della sicurezza .[44]
LA TRADIZIONE LIBERISTA DEL SOCIALISMO ITALIANO
a) L’operaismo postrisorgimentale di Bignami e Gnocchi-Viani. Nell’Italia uscita dalla riunificazione risorgimentale il socialismo autoctono presentò originariamente caratteri distinti rispetto ai due filoni principali presenti nella Prima Internazionale, quello marx-engelisiano e quello bakuniniano, le cui idee inizieranno a circolare in Italia solo a partire dagli anni ’70. Il socialismo italiano di quegli anni, infatti, presentava caratteristiche decisamente liberali e antistataliste, e rifiutava sia la via marxista della conquista del potere politico, sia la via insurrezionalista degli anarchici. I due centri principali di diffusione di quello che è stato definito come “l’altro socialismo” furono Napoli e soprattutto la Lombardia e l’hinterland milanese. Il gruppo dei socialisti lombardi si riunì a partire dal 1860 attorno al giornale Il proletario; poi attorno all’importante esperienza de La Plebe (dal 1868 al 1883) di Enrico Bignami e, successivamente, di Osvaldo Gnocchi-Viani; cui infine subentrò Il Fascio Operaio e la costituzione del Partito Operaio.[45]
Come sottolinea Giovanna Angelini, questo primo socialismo si innestava come un ramo nuovo sul tronco del liberalismo, dato che «per il gruppo lombardo diventa rivelatrice la consapevolezza, pienamente avvertita fin dagli anni ’60, che per garantire spazi di libertà per l’individuo e per le associazioni, è indispensabile creare validi argini al potere (nel solco del più genuino Montesquieu), cominciando a contrapporgli la forza delle stesse organizzazioni operaie, chiamate a sostituire l’individuo-produttore anche nella rivendicazione liberista del non-intervento dello Stato nel mondo dell’economia e del lavoro».[46] Criticando fin da subito la fallimentare esperienza statalista degli ateliers nationaux sperimentati dal socialista francese Blanc durante le giornate rivoluzionarie del 1848,[47] i socialisti lombardi affermavano senza mezzi termini che “la grande associazione del lavoro” doveva essere fondata “fuori dallo Stato”.[48] Per Bignami, infatti, la «rivoluzione dei proletari» non aveva lo scopo «di piegare sotto il giogo di un comunismo dittatoriale le intelligenze e le attitudini, ma di favorire al contrario lo sviluppo di tutte le facoltà, di tutte le iniziative»: «il suo programma era più vasto e radicale: per essa si trattava non già di essere governati da tale o da tal’altro padrone, da tale o da tal’altra classe, ma di non essere più governati; si trattava di aumentare il potere e la libertà dell’Individuo, diminuendo il potere e la libertà dello Stato».[49] I mezzi dovevano quindi essere quelli del raggiungimento dell’indipendenza economica e culturale, attraverso la diffusione dell’istruzione, dello spirito d’associazione, del credito cooperativo, mentre il ricorso alla “carità pubblica” veniva condannata come palliativo inutile, dannoso e illusorio, perché “togliendo al proletariato la responsabilità, che proviene dalla sua emancipazione, lo spoglia d’ogni principio di dignità e di virtù, perpetuando miseria e pervertimento”[50]. Anche Gnocchi-Viani, fondatore del Partito Operaio, era fermamente convinto che “gli operai associati dovevano mantenere “una profonda indifferenza verso il potere governativo”, e abituarsi invece “all’esercizio delle proprie forze”, acquisendo così una “forza morale” in grado di aiutarli “grandemente a tutelare la propria indipendenza”.[51]
In uno scritto del 1886, intitolato Il socialismo moderno egli affermava che l’obiettivo del Partito Operaio doveva essere quello di portare a compimento le conquiste del liberalismo, e di dar vita ad uno Stato che “non si ingerisca nelle cose nostre e nell’estrinsecazione della personalità umana”, ma eviti ogni “inframmettenza e ogni ingerenza politica” nella sfera privata del singolo e in quella delle libere associazioni.[52] La linea di condotta doveva essere quella della “libertà senza ostacoli”, in base alla quale il Partito doveva dichiararsi nemico della legislazione sociale, convinto che “tutto ciò che mira ad affievolire…l’organismo statale è un bene” e che quindi «qualunque brandello d’autorità, di facoltà e di attribuzioni che si tolga ai governi è ben tolto, per darlo alle associazioni e agli individui perché…sviluppino con maggior libertà le loro facoltà e i loro bisogni».[53]
Sul piano economico Gnocchi-Viani, cercando di scongiurare l’adesione del movimento socialista al programma marxista, sosteneva che occorreva creare «una larga orditura federativa di organismi economici loro propri; orditura la quale, perché essenzialmente economica e federativa, sarà sempre un vigoroso e salutare antidoto al parassitismo politico, che succhia il sangue migliore della dignità e della libertà umana». Le istanze liberiste e liberoscambiste degli operaisti (che Costantino Lazzari, a nome del partito, aveva sostenuto al congresso della federazione operaia lombarda nel 1885) rivendicavano il non-intervento dello Stato nelle libere intraprese economiche delle cooperative di lavoratori, delle leghe, delle organizzazioni, dei sodalizi, che si costituivano tra gli operai, dimostrando così come, nell’ottica di Gnocchi-Viani e del Partito operaio, il liberalismo e il liberismo continuavano a rimanere termini inscindibili. [54]
Le perverse manovre governative monetarie e fiscali (come l’imposta sulla ricchezza mobile o la tassa sul macinato) e la connivenza tra monopolio economico e intrigo politico convincevano questi socialisti del fatto che l’organismo sociale non lo si sarebbe mai potuto ricostruire salendo su “quell’albero della cuccagna” che è il potere, dove qualsiasi partito politico, una volta arrivato, avrebbe finito “con ogni mezzo e qualunque costo” per rimanere, “riaffermandosi classe o casta”.[55] Occorreva piuttosto procedere dalle fondamenta, intaccando alla base la struttura piramidale dello Stato, contrapponendo al suo potere accentratore e politico quello decentratore e apolitico delle associazioni operaie che, allargandosi gradualmente ed estendendo la loro influenza economica nell’ambito della società civile, sarebbero dovute riuscire a decretare la fine della politica e degli antagonismo che essa contribuiva a mantenere.[56]
Gnocchi-Viani si sforzava inoltre di convogliare il movimento operaistico verso il modello inglese, e non verso quello tedesco che riscuoteva invece l’ammirazione entusiastica di Filippo Turati. Purtroppo la svolta del congresso di Genova del 1892 impose una “divisa tedesca” al movimento socialista italiano ben diversa da quella immaginata dagli operaisti. In questo storico congresso, ha rilevato la Angelini, un’elite di intellettuali finì per imporre un’ideologia ufficiale, e con essa una politica verticistica e schemi autoritari, a un movimento dei lavoratori che da un lato mirava a svincolarsi dai leaders che si accaparravano il diritto di decidere il futuro di un’intera classe sociale, dall’altro lato reclamavano la libertà dall’ingerenza dello Stato per poter essere l’artefice primo e unico del proprio destino.[57]
Negli ultimi anni del secolo, tuttavia, si apriva la “crisi del marxismo”: non furono però le correnti liberali e liberiste del movimento socialista a trarne i maggiori benefici, ma quelle revisioniste in senso socialdemocratico. Seguiamo ora questi avvenimenti.
b) La revisione del marxismo dei sindacalisti rivoluzionari. Alla fine dell’800 l’intero socialismo europeo si trovò costretto a ripensare le proprie basi dottrinali, alla luce del notevole sviluppo economico avvenuto nei decenni precedenti e della sempre più evidente mancata realizzazione delle profezie marxiane. Le due condizioni necessarie per lo scoppio della rivoluzione socialista – la crescente divaricazione della società in due classi e l’impoverimento progressivo del proletariato – non si erano affatto verificate, ed era anzi accaduto l’opposto: dalla fine della guerra franco-tedesca del 1870 il continente europeo aveva goduto di un lungo periodo di pace, stabilità, sviluppo scientifico, e progresso tecnologico. I primi a goderne erano stati proprio gli strati popolari, le cui condizioni di vita e il cui potere d’acquisto erano migliorati in maniera indiscutibile. «Tutti questi fattori, ai quali si deve aggiungere la crescita demografica resa possibile dal miglioramento delle condizioni di vita – spiega lo storico Zeev Sternhell – favoriscono, alla fine del XIX secolo, l’avvento di un periodo di espansione e di prosperità, che permette di toccare livelli di vita mai raggiunti in precedenza. Questa nuova prosperità, che sembra destinata a durare, definisce i tratti di un ambiente sociale in cui i fenomeni politici ed economici si presentano in forma assai diversa a quella che Marx aveva potuto osservare. E il pensiero socialista è chiamato ad affrontare tutta una serie di problemi nuovi, difficilmente spiegabili attraverso un’analisi marxista di tipo d’ortodosso».[58]
E’ questo il contesto storico in cui si apre il dibattito, sia dentro che fuori il campo socialista, sulla cosiddetta “crisi del marxismo”, che giungerà alla sua chiarificazione definitiva nel 1898, l’anno dell’eresia revisionista socialdemocratica del tedesco Eduard Bernstein. La revisione del marxismo si biforcherà infatti in due filoni, l’uno cercando una conciliazione con gli istituti della democrazia borghese (il revisionismo di Bernstein, Jaures o Turati), l’altro riformulando la prospettiva della lotta di classe (il sindacalismo rivoluzionario di Sorel). Entrambe le correnti intendevano accordare i dettami del socialismo scientifico con la nuova realtà socio-economica: per il revisionismo socialdemocratico (al quale quasi tutto il socialismo occidentale uscirà convertito di lì a pochi anni) il socialismo doveva perseguire i propri obiettivi rispettando le regole del gioco democratico; per il revisionismo sindacalista occorreva invece far rientrare a forza la realtà nei binari rivoluzionari. Pur concordando sul fallimento delle previsioni del marxismo ortodosso, i sindacalisti si rifiutavano di scendere a compromessi con l’ordine esistente, perché, come affermava il loro massimo teorico, il francese George Sorel, era del tutto ininfluente che la realtà avesse smentito alcune profezie di Marx, dato che il socialismo non era una scienza razionale ma una sollevazione d’ordine morale.
Tuttavia, per quanto singolare possa sembrare, il sindacalismo rivoluzionario – benchè notevolmente più estremista del riformismo socialdemocratico – fu assai meno statalista e anticapitalista di questo. L’antistatalismo dei sindacalisti rivoluzionari era la conseguenza del loro completo disprezzo per le istituzioni democratiche e del loro rifiuto dell’azione politica, della tattica parlamentare, della partecipazione elettorale come mezzi di lotta delle masse popolari, alle quali opponevano “l’azione diretta” nel campo economico. Sorel auspicava addirittura la soppressione dello Stato, e accusava “l’elite politicante” socialdemocratica di volersi impossessare delle leve dello Stato per irregimentare e sfruttare il proletariato a proprio esclusivo vantaggio. Allo Stato borghese o socialista, inevitabilmente dominato dalla classe intellettuale padrona dei partiti e dei parlamenti, i soreliani contrapposero una non meglio precisata società di produttori organizzata in sindacati.[59]
Sul piano economico, mentre l’obiettivo finale del socialismo riformista rimase quello della socializzazione dei mezzi di produzione, i seguaci di Sorel furono i primi rivoluzionari provenienti dalla sinistra marxista a non mettere in discussione la proprietà privata, il profitto individuale e l’economia di mercato.[60] Per i sindacalisti rivoluzionari la proprietà privata e gli strumenti di produzione non dovevano essere collettivizzati, nè prima nè dopo la rivoluzione[61]. “L’azione della libera concorrenza elevata alla massima potenza”[62], infatti, rappresentava allo stesso tempo la condizione necessaria sia del progresso economico che dello sviluppo della lotta di classe. Al contrario, i sindacalisti rivoluzionari vedevano come fumo negli occhi tutto ciò che indeboliva e corrompeva la mentalità combattente del proletariato, come la legislazione sociale, le misure protezionistiche, la partecipazione al governo o la statalizzazione delle imprese.
c) Il socialismo liberistico di Romeo Soldi. In Italia i sindacalisti rivoluzionari riuscirono, grazie soprattutto ai lavori teorici di Enrico Leone e Arturo Labriola, a fondare la propria dottrina su basi decisamente più scientifiche e razionali di quanto fossero riusciti a fare Sorel e i suoi discepoli in Francia. Nei decenni a cavallo del secolo l’analisi politica di questi estremisti del socialismo aveva numerosissimi punti di contatto con quella della scuola “liberista” di Pareto, Pantaleoni, De Viti De Marco, Mazzola, Giretti, Papafava, Einaudi. Per entrambi le ragioni del malcontento popolare, sfociate nei tumulti del maggio 1898, avevano origine nella politica protezionista e interventista del governo.[63] I liberisti speravano quindi in un’alleanza antigiolittiana della borghesia libertaria contraria alle spese per l’esercito, alle conquiste militari, all’accentramento burocratico e alla spesa pubblica con le masse rurali del mezzogiorno danneggiate dal protezionismo. L’alleanza doveva completarsi con l’ala antistatalista e sindacalista del socialismo che voleva riportare il partito nell’alveo della lotta economica – ala che discendeva dalla corrente intransigente del vecchio operaismo lombardo, che vedeva nello Stato l’espressione di un puro fatto di classe, e che quindi era contrario a chiedere ad esso riforme e investimenti per lavori pubblici. Come fatto costitutivo di quest’alleanza venne fondata nel 1904 la “Lega antiprotezionista”, alla quale aderirono diverse personalità del socialismo (Leone, Labriola, Soldi, Cabrini, Montemartini). La Lega non raggiunse tuttavia gli obiettivi sperati, perchè il partito socialista, lungi dall’assumere la guida di una forte ed entusiastica corrente abolizionista, si avvicinò sotto la guida di Turati sempre di più al giolittismo clientelare, rovesciando la politica richiesta dal socialismo liberista e assestando un duro colpo alle illusioni degli antiprotezionisti che le organizzazioni operaie potessero impegnarsi nella lotta per l’instaurazione della libera concorrenza, com’era avvenuto in Inghilterra nella Lega di Cobden.[64]
Contro la politica riformista e statalista di Turati si scagliò a quel punto la corrente liberista e massimalista del partito socialista, guidata da Enrico Leone e Arturo Labriola. I socialisti liberisti – come spiegava un altro dei loro maggiori esponenti, Romeo Soldi – erano in forte dissenso con gli altri socialisti riguardo l’attitudine da tenersi nei confronti dello Stato: «Tra i nostri compagni si notano in proposito due tendenze diverse, anzi diametralmente opposte, ed è bene metterle l’una di fronte all’altra…Da una parte alcuni socialisti sono felici tutte le volte che possono affidare qualche nuovo incarico allo Stato, ed essi credono in tal modo di arrivare quasi insensibilmente al socialismo….Dall’altra moltissimi studiosi diffidano di ogni ingerenza economica dello Stato, almeno come è costituito attualmente. Essi rammentano che lo Stato è lo strumento di dominazione di alcune classi sulle altre ed aumentare la potenza sua vuol dire dare in mano, alla classe che in un determinato momento detiene il potere, armi più potenti di oppressione. In questo senso l’Engels , il Deville e quasi tutti gli autori socialisti sostenevano che il socialismo doveva arrivare all’abolizione dello Stato appunto perchè doveva abolire ogni dominazione di una classe sulle altre. Quindi essi credono che la politica del partito socialista debba essere diretta principalmente a diminuire la forza dello Stato, a decentrare le sue attribuzioni, a togliere tutte le funzioni politiche dagli artigli dei politicanti di mestiere per affidarle di preferenza ai corpi interessati»[65].
Questi socialisti avevano quindi finito col convenire con la critica antistatalista degli economisti liberali: «Da un lato l’opera dei politicanti di professione porta allo sperpero delle risorse economiche della nazione, con lavori pubblici utili più all’organizzazione delle forze elettorali, che non allo sviluppo della produzione. Gli armamenti eccessivi, fatti in vista delle grandi forniture, e di una politica coloniale imperialistica, servono a dare molta importanza agli uomini del potere, ma a deprimere le energie lavoratrici. Di modo che lo Stato non appare soltanto, come dal Manifesto dei Comunisti, l’espressione del dominio di una classe, ma come una superstruttura parassitaria ed ingombrante tanto le attività degli intraprenditori, quanto quelle degli operai. L’alta finanza, il militarismo coi relativi interessi dinastici, il politicante di professione, rappresentano gli ostacoli maggiori al progredire della civiltà industriale e proletaria. Gli interessi degli operai e dei direttori di produzione, antagonistici quando si tratta dei salari, diventano paralleli, anzi coincidono quando si tratta di combattere contro queste tre forze inceppanti la libera attività e costituenti il parassitismo politico, che poi aiuta e fomenta il parassitismo economico….Quindi per questi socialisti occorre soprattutto lottare contro il sistema protezionistico e contro i favoritismi dello Stato, affinchè sia sbarazzato il terreno per una riorganizzazione economica della società. La questione se il massimo di benessere si potrà attuare colla proprietà privata, colla libera iniziativa, o colla proprietà sociale e coll’organizzazione collettiva delle intraprese, potrà risolversi solo quando saranno tolti di mezzo i privilegi garantiti dallo Stato in favore di qualsiasi classe. E tale concezione va a coincidere colla antica concezione marxistica della necessità di abolire lo Stato, perchè lo Stato è strumento di classe e non può concepirsi libertà, senza togliere tale strumento di oppressione».[66]
«Come possiamo noi – continuava non senza ragioni Soldi – aspirare ad allargare le funzioni dello Stato, che domani può essere preda assoluta di qualche piccola cricca parassitaria?…E’ proprio quando vediamo che esso è incapace di provvedere economicamente ai propri uffici attuali che noi vogliamo aumentarglieli? E’ proprio nel momento in cui noi vediamo allargarsi le clientele politiche per mezzo di posti da distribuire, di favori da fare, che noi dobbiamo proporre una misura la quale porterà ad un aumento di burocrazia? …Ma oltre a ciò le classi che, dopo le cricche parassitarie, hanno maggior influenza nello Stato nostro, sono quelle dei proprietari di terre e dei proprietari di industrie…. Ecco dove si rivela il carattere reazionario del socialismo di Stato. Esso finisce al capitalismo di Stato, anche contro le ottime intenzioni dei nostri buoni compagni».[67]
La stessa legislazione protettrice dei lavoratori veniva guardata con avversione, in quanto illusoria protezione data dallo Stato agli operai in compenso della protezione (tariffe doganali, premi, ecc.) data alle altre classi. In realtà essa rappresentava semplicemente uno strumento in mano ai vari partiti politici per comprarsi un seguito nelle masse operaie.[68] Non meno critica, continua Soldi, era la posizione dei socialisti liberisti contro la “soverchia ingerenza dello Stato in fatto di banche, di istruzione, di lavori pubblici, di ferrovie”.[69] Anche la municipalizzazione dei servizi pubblici, tradizionale cavallo di battaglia dei socialisti, era accettata come mezzo per sottrarsi all’azione centralizzatrice dello Stato, ma solo quando l’iniziativa privata non si fosse dimostrata più economica. I socialisti liberisti non tralasciavano però di additare i pericoli di queste municipalizzazioni: di asservire gli operai alle frazioni dominanti in municipio; di fare di questi operai una casta privilegiata alle spalle degli altri lavoratori; di trasformare l’impresa municipale in uno strumento per prelevare imposte.[70] Convinti che lo sviluppo diretto delle energie lavoratrici rappresentasse la chiave per superare ogni crisi, i socialisti liberisti non ritenevano affatto essenziale la collettivizzazione di tutte le imprese. L’importante era che «l’iniziativa e l’energia individuale potesse portare dei progressi mediante la concorrenza, e che non si stabilissero per opera di un corpo pubblico dei monopoli di una classe operaia a danno delle altre».[71]
Se sul piano economico queste concezioni portavano gli appartenenti alla corrente liberista del socialismo ad una completa sfiducia nell’azione e nell’intervento dello Stato, e a pronunciamenti dichiaratamente antistatalistici, sul piano politico ciò li conduceva ad un permanente risentimento antiparlamentare, perchè il Parlamento, con la possibilità che offriva di approvazioni e discussioni delle legislazioni parlamentari, allontanava il socialismo dalla via del liberismo.[72] Si capisce quindi che per i socialisti liberisti, così come per i liberali-liberisti, i nemici da battere fossero Giolitti e Turati, i quali incarnavano quella politica che garantiva previdenze sociali nell’alveo del protezionismo e della seducente prassi parlamentare. Per questa ragione i socialisti liberisti cercavano alleanze con la frazione socialista degli intransigenti formali capitanata da Enrico Ferri (il quale solo in via eccezionale ammetteva la partecipazione elettorale), con i repubblicani antistatalisti, e con gli anarchici (ai quali spesso venivano assimilati da Turati).[73]
d) Il liberismo proletario di Enrico Leone. Sul piano più dottrinale Arturo Labriola e Enrico Leone si sforzarono di aggiornare le teorie socialiste alla luce dei progressi che la scienza economica aveva avuto in quegli anni, soprattutto grazie ai modelli neoclassici di Jevons e Walras, alle analisi soggettivistiche della scuola austriaca di Menger, von Wieser e Boehm-Bawerk, e ai principi edonistici di Pareto. Arturo Labriola e Enrico Leone tentarono quindi di integrare la teoria marxiana con i principi dell’homo oeconomicus, della teoria dell’equilibrio generale, dell’utilità marginale e del maximum edonistico. Le correzioni proposte da Arturo Labriola ed Enrico Leone al marxismo andarono quindi tutte nella direzione di una “società di produttori liberi”, in cui l’intervento dello Stato fosse ridotto al minimo e in cui l’economia, in un mercato totalmente libero, non conoscesse alcuna limitazione di ordine non economico.[74] Nel complesso, quindi, il tentativo di Labriola e Leone di sovrapporre uno schema economico liberista sul modello di Marx finì col produrre una elaborazione teorica in cui il contenuto marxista divenne del tutto marginale.[75]
Fu Enrico Leone, il maggior teorico della corrente sindacalista del socialismo italiano, che si preoccupò maggiormente di rinnovare in senso liberistico la teoria socialista. Accogliendo il postulato base dell’economia edonistica secondo cui ogni individuo, operaio o capitalista, contadino o proprietario terriero, intellettuale o uomo politico, tende a ricercare il maggior profitto personale con uno sforzo minimo (principio che per Leone ha applicazione universale, perchè conforme alla natura umana), egli afferma che “l’armonia sociale viene raggiunta soltanto mediante il libero funzionamento della legge dell’egoismo individuale”[76], e che “il problema che dovrebbe preoccupare i socialisti d’ora in avanti è quello della ricerca della forma sociale che assicuri un massimo edonistico a tutti”.[77]
Ora, poichè la scuola classica prima e la scuola edonistica poi hanno dimostrato che “il libero scambio o concorrenza procura il massimo di utilità a tutti i membri del gruppo catallattico”, ne consegue che «se uno Stato socialista potesse positivamente dirigere la produzione non potrebbe, per raggiungere il massimo benessere, che assegnare agl’impieghi della ricchezza quel medesimo corso che seguono nel regime della libera concorrenza industriale. Dunque i neo socialisti, propostisi il quesito della forma sociale più utile e rigettato il concetto della socializzazione economica, devono, secondo le previsioni possibili, aderire, come implicitamente E. Bernstein ed esplicitamente Arturo Labriola, a questa veduta della scuola liberista. E’ da tal punto che noi dobbiamo tentare di dedurre le linee generalissime del nuovo sistema teorico dei liberisti-socialisti. Che essi cadano o non cadano nel borghesismo dipende dal tono e dalla portata che vorranno conferire al loro sistema. Ed io suppongo che il criterium divisionis che li separa dai liberisti dello statu quo sia quello di creare un liberismo di classe: un liberismo operaio».[78]
Il socialismo deve dunque tramutarsi in un “liberismo integrale”[79], o meglio in un liberismo di classe, “il liberismo del proletariato”.[80] Solo in un mercato realmente libero, infatti, sono realizzabili gli ideali socialisti dell’uguaglianza dei costi, degli sforzi e del lavoro per tutti gli individui, e quindi l’uguaglianza dei profitti e dei salari. Ma perchè questo vero socialismo si avveri è necessario che lo Stato, il parlamento, la burocrazia, i tribunali, i socialisti riformisti, i liberali, e gli intellettuali, cioè tutte le strutture e le forze che collegano il processo di produzione ai ristretti interessi della borghesia, siano messi in disparte.[81] Leone, come Tucker,[82] riteneva infatti che la situazione economica del suo tempo fosse ben lontana dal rappresentare un modello puro di concorrenza: «Perchè le condizioni dell’equilibrio hanno una organica interdipendenza mondiale, e poichè i principi liberistici non sono che parzialmente applicati, ne segue che la libertà economica è anch’essa un programma da venire, non ancora escogitato da nessun popolo nella sua integrale efficacia. Le classi che detengono il potere attentano ogni giorno a questa libertà industriale, nazionale e internazionale, producendo così quei molteplici danni e quei disequilibri sociali che, lungi dall’essere il prodotto delle leggi mercantili, sono proprio l’effetto della loro violentazione. E’ chiaro che tali classi sopraffatrici non hanno nessun interesse a spogliarsi dei loro monopoli e delle loro rendite, artificialmente prodotte con la spoliazione altrui: quindi l’astratto appello al liberismo dottrinale è anche qui senza effetto, se non si stimoli un poderoso movimento di classe liberistico….Il caso in cui, sotto il generale influsso della domanda e dell’offerta, l’operaio possa scambiare il suo servizio-lavoro contro il prezzo e prodotto più possibilmente remunerativo, è lungi dall’essere attuato». [83]
In stretta osservanza con i modelli neoclassici del tempo, oggi peraltro criticati dalla scuola economica austriaca, Leone era convinto che in una situazione di concorrenza pura e perfetta il profitto del capitale sarebbe tendenzialmente sceso fin verso lo zero: «Sicchè sotto la pressione della piena libertà economica della classe operaia, mediante la regolazione del corso del valore dei suoi servigi, si avrà una esplicazione del massimo di benessere sociale, sia col ridurre il guadagno dell’imprenditore ad un salario operaio, sia col ridurre l’interesse. Diciamo ridurre, perchè la sua eliminazione non è socialmente utile, perchè esso, come hanno mostrato Wieser, Boehm-Bawerk, Pareto, Merlino, è il principio regolatore ed automatico della ricchezza tra i molti possibili…Onde il possesso del capitale si generalizzerà, non si abolirà la sua appropriazione, come pretendono i collettivisti e i comunisti…La libera concorrenza, come un corpo abbandonato nel vuoto è costretto a cedere, deve necessariamente, per l’indole sua, condurre all’uguaglianza comune…Una eguaglianza nei rapporti sociali dovrà necessariamente discendere dall’evoluzione economica libera». [84]
Da queste affermazioni non bisogna però pensare che i socialisti liberisti fossero degli emuli di Boehm-Bawerk o di Pareto. Al contrario – come ha sottolineato Sternhell – Leone, Soldi e Labriola erano dei rivoluzionari, dei dissidenti di sinistra partiti all’assalto dell’ordine borghese e del socialismo democratico, non degli avversari borghesi del marxismo.[85] Ciò è particolarmente evidente nel programma dei sindacalisti-rivoluzionari stilato da Leone nel 1910 che, pur lontano dal marxismo, non era meno rivoluzionario di questo: «Come cittadini, aventi la convinzione dell’inevitabilità del sindacalismo, la nostra opera sarà chiara. Senza avere la pretesa di designare fin d’ora nome e programma del vagheggiato partito cui saremo addotti dal bisogno di operare, è chiaro che esso dev’essere un’organizzazione di controllo, di critica del socialismo ufficiale: dovrà combattere le misure del socialismo di Stato, dovrà ispirarsi ad un liberismo integrale nei suoi rapporti positivi con lo Stato, dovrà difendere l’autonomia del movimento dei lavoratori, opponendo alla falsa democrazia d’una borghesia organizzatrice della solidarietà sociale il radicalismo fautore della libera concorrenza in tutte le forme della vita economica – solo ambiente adatto alle grandi lotte delle classi».[86]
Secondo Leone “questa seconda fase del socialismo”, finalizzata a “togliere dalle mani dei governanti, interessatamente antiliberisti, i congegni monopolizzatori dello Stato”, poteva “rivendicare il merito di rispondere meglio del marxismo agli ultimi risultati della scienza economica”.[87]
e) Il sindacalismo antistatalista di Arturo Labriola. Anche per Arturo Labriola, il primo introduttore del sorelismo in Italia, l’ideale del sindacalismo consisteva esclusivamente nella gestione autonoma della produzione da parte della classe operaia, e marxianamente contrapponeva la natura economica della loro azione, che mirava ad una rivoluzione dei rapporti strutturali all’interno della società, al carattere sovrastrutturale dell’azione politica del socialismo riformista turatiano.[88] Essendo l’obiettivo dei sindacalisti rivoluzionari l’organizzazione di una “società di lavoratori liberi”[89], la conquista del potere politico e il ruolo dello Stato diventavano per Arturo Labriola del tutto secondari: «Un liberalismo di classe! Ecco il sindacalismo! Il sindacalismo combatte i privilegi legali per le altre classi e per se stesso, ed è soltanto dallo sviluppo della lotta e del libero gioco delle forze economiche organizzate che esso attende i germi delle nuove trasformazioni storiche, e grandi speranze per l’umanità pacificata nel lavoro».[90]
E’ interessante notare come Labriola non parli di “proletariato” ma in senso lato di “produttori”, di cui fanno parte tutti i protagonisti del processo produttivo (operai, tecnici, amministratori, gestori, direttori, imprenditori). A questa classe produttiva egli oppone la classe parassitaria di coloro che non partecipano al processo di produzione, e che cercano di realizzare rendite extraeconomiche sottraendosi al libero e benefico gioco della concorrenza. Sulla scia degli insegnamenti di Pareto e del socialista antimarxista Merlino[91], Labriola era infatti convinto, che «Il sistema della libera concorrenza, col meccanismo dell’interesse personale, adegua guadagni e perdite, cioè elimina il profitto capitalistico, mette in corrispondenza esatta la domanda con l’offerta, elimina gli intermediari e la loro opera, cioè fa tutte quelle cose che per Merlino costituiscono il socialismo».[92]
Per Labriola né i capitalisti né i politicanti socialisti avevano un interesse all’instaurazione di un sistema di libertà economica, e per questa ragione il proletariato doveva impugnare la bandiera della libera concorrenza per impedire la formazione di uno “Stato di classe”, capitalista o socialista che fosse: «Chi ci dice che la classe borghese non sia capace di pigliar essa l’iniziativa di un’organizzazione collettivistica della produzione?…Che cos’è la febbre attuale delle municipalizzate, fuorchè una manifestazione del bisogno capitalistico di socializzare e capitalizzare?…Non deve però apparire assurdo all’occhio di molti capitalisti che gli interessi della classe capitalistica potrebbero meglio garantirsi quando tutta la produzione fosse accentrata nelle mani della società, e la gestione collettiva di essa venisse affidata agli attuali componenti della classe capitalistica…[Anche] i borghesi professionali della politica non mancano di sfruttare le loro conoscenza superiori mettendole, in apparenza, a servizio del proletariato…si vuole demolire la società capitalistica, ma a beneficio dello Stato. Accrescere i poteri dello Stato è la suprema idealità del momento. Che cosa i proletari guadagnerebbero con l’esser dominati dal potere statale, anziché dai capitalisti, nessuno può comprendere».[93]
Lo sfruttamento politico-burocratico a danno dei lavoratori rischiava anzi di essere ben più terribile di quello dei capitalisti: «L’utilizzazione del plusvalore prodotto dal lavoro del lavoratore (secondo la teoria marxistica) non è più (interamente) privata; una parte, e la più cospicua di essa, passa allo Stato. Resta, per altro, plusvalore, valore gratuitamente acquistato da un elemento estraneo al produttore diretto di esso, e sottratto al godimento del suo produttore. Ma i socialisti del “partito”, cioè la nuova classe dirigente del lavoro, persuadono i lavoratori che questo plusvalore ritorna loro in una forma indiretta, cioè come insieme di “provvidenza sociali” rivolto al loro benessere, e quindi non è plusvalore, saggio di sfruttamento del loro lavoro. Il che sarebbe vero qualora lo Stato fosse cosa sola con i lavoratori….[Ma] fra i due sorge onnipotente la burocrazia, e il partito che dice di interpretare i bisogni della classe economica. Burocrazia ed elite dirigente del partito si godono il plusvalore operaio, si danno dei fini propri e chiedono alla classe economica di servire da strumento. Né questa ha la possibilità di sottrarsi al suo destino di mero istrumento».[94] Da ciò la necessità di elaborare una nuova teoria della lotta di classe, finalizzata a proteggere la classe lavoratrice dallo sfruttamento statale: «Chi ci darà una nuova teoria del plusvalore deducendola dal rapporto di subordinazione del lavoratore di fronte all’economia statale, e dalla possibilità per quest’ultima di portare il limite di sfruttamento del lavoro molto più in là di quello che l’istintiva resistenza operaia non consente al privato imprenditore?»[95]
Nelle ultime opere della sua vita, Labriola intravide proprio nell’apogeo dello Stato la causa della cessazione della civiltà, e rinfacciò al socialismo statalista dominante la grave colpa di aver favorito questo processo, a suo dire nient’affatto connaturato al sindacalismo originario, che, in quanto individualista, nasceva dalla società civile e non dallo Stato: «Il secolo XIX, che è l’apogeo dell’individualismo, è anche il secolo dell’Associazione…Ora il sindacato libero era il più riuscito esemplare di “Società” nella sua distinzione dallo “Stato”; era un autentico prodotto della libertà sociale alla ricerca di soluzioni che nascevano dai liberi rapporti degli uomini. Col suo diventare un ingranaggio della macchina statale, è una porzione interessante di società che sparisce, mentre è una parte dello Stato che ne occupa il territorio».[96]
Il socialismo, secondo Labriola, era infatti nato come “liberalismo operaio”, cioè come tentativo di estendere alle classi lavoratrici le stesse libertà di cui già godevano le classi più elevate. Ma la critica socialista al liberalismo aveva sbagliato per eccesso, finendo col trasformare la giusta polemica contro un’applicazione parziale del principio liberale in una polemica contro il principio stesso: «Il socialismo faceva probabilmente carico al liberalismo di quello di cui il liberalismo non portava la minima responsabilità, cioè la miseria delle classi lavoratrici…perché questa miseria gli preesisteva…La miseria non derivava dal capitale e dai capitalisti, i quali, lo volessero o no, erano destinati ad attenuarla, in qualche caso ad eliminarla. Essa promanava dallo scarso accumulo del capitale rispetto al numero dei proletari occupabili…Più le società erano ricche di mezzi capitalisti (imprese, risparmio, strumenti) e meno le loro classi lavoratrici soffrivano la penuria».[97]
Purtroppo però da questa critica al liberalismo il socialismo pratico ne aveva dedotto un atteggiamento favorevole alle soluzioni economiche statali. Onde la responsabilità – affermava senza mezzi termini Labriola – che esso porta dell’enorme diffusione dello statalismo nei nostri tempi, dato che “il totalitarismo non ha fatto che ereditare la polemica del socialismo contro il liberalismo”.[98]
- DAL SOCIALISMO ANTICAPITALISTA AL SOCIALISMO ANTISTATALISTA?
La virulenta “controrivoluzione” statalista iniziata con la Prima Guerra Mondiale, e coincidente con l’intera durata del cosiddetto “secolo breve”, investì come un ciclone ogni corrente di pensiero, trasformando radicalmente tutte le dottrine politiche esistenti: il nazionalismo si mutò in fascismo e il socialismo diventò universalmente – in teoria e in pratica – un socialismo di stato.
Con la Grande Guerra gli uomini rimasero infatti profondamente impressionati dall’enorme potenza manifestata dallo Stato moderno, accorgendosi per la prima volta delle sue immense capacità di mobilitazione della popolazione e di pianificazione dell’intera economia nazionale. La guerra, momento di supremo prestigio dello Stato, diventò agli occhi di molti socialisti di Stato la dimostrazione di quanto grande fosse la possibilità di imporre il sacrificio dell’individuo in nome dei più “alti” interessi della comunità: in altre parole, una conferma empirica delle teorie collettiviste da loro propagandate nei decenni precedenti. In tutti gli Stati europei, compresa l’Italia, la guerra del ‘14-’18 anticipò infatti gli universi concentrazionari che l’umanità conoscerà negli anni successivi: mobilitazione dell’intera popolazione, propaganda, culto della disciplina, ferrea censura, coscrizione obbligatoria di massa, legislazione d’emergenza, stato d’assedio, tribunali militari, e plotoni d’esecuzione stringeranno in una ferrea gabbia totalitaria non solo la popolazione militare, ma anche quella civile.[99]
Le correnti socialiste analizzate in questo saggio, quindi, non riuscirono a contrapporsi al socialismo maggioritario, statalista, autoritario e illiberale, che si affermò sul modello della socialdemocrazia tedesca e del programma marxista adottato al congresso di Erfurt. Gli effetti catastrofici dello sbandamento del socialismo in collettivismo burocratico, un sistema palesemente funzionale agli interessi della Nuova Classe di rivoluzionari e funzionari andati al potere, ma non a quelli delle classi lavoratrici che pretendevano di rappresentare, non erano però imprevedibili. Come ricorda Rothbard, il socialismo statalista marxista o socialdemocratico, in quanto movimento confuso e ibrido – dato che tentava di realizzare gli obiettivi liberali di pace e armoniosa crescita industriale (obiettivi in realtà raggiungibili solo attraverso la libertà e la separazione del governo da praticamente da tutto) con l’imposizione dei vecchi mezzi conservatori dello statalismo, del collettivismo e dei privilegi gerarchici – poteva solo fallire. E difatti esso fallì miseramente in tutti quei paesi in cui divenne potente nel corso del ventesimo secolo, portando alla gente solamente un dispotismo senza precedenti, fame e povertà.[100] Poiché i motivi che hanno portato al crollo i socialismi reali, con mere differenze di grado, sono gli stessi che stanno segnando il declino delle socialdemocrazie occidentali, si può ipotizzare che anche la fine dei sistemi interventisti e assistenziali sia solo una questione di tempo. Alcuni segnali, come la crescente adesione dei lavoratori dipendenti del settore privato, in tutti i paesi industriali avanzati, a partiti e movimenti d’ispirazione liberale e antistatalista (in Italia il fenomeno è evidentissimo nelle regioni a forte sviluppo del Nord-Est), sembrano dimostrare che i tempi siano ormai maturi.[101]
Non è allora da escludere l’eventualità della rinascita di movimenti sindacali radicalmente liberali, capaci di battersi per gli interessi dei lavoratori in quanto contribuenti (poiché oggi l’erario assorbe più della metà della busta paga), in quanto consumatori (per la diminuzione dei prezzi dei beni di consumo che la libera concorrenza e l’abolizione dei monopoli porta con sè), e in quanto lavoratori (dato che tali misure liberalizzatrici aumenterebbero in maniera consistente le offerte e le opportunità di lavoro per tutti). Se le cose andassero in questo modo potremmo considerare l’infatuazione statalista del socialismo moderno come un tragico errore di percorso, che per un secolo ha trascinato l’intera umanità nel proprio vortice distruttivo.
NOTE
[1] Per lo storico dell’economia C. M. Cipolla «Tra il 1780 e il 1850, in meno di tre generazioni, una profonda rivoluzione che non aveva precedenti nella storia dell’umanità cambiò il volto dell’Inghilterra. Da allora il mondo non fu più lo stesso. Gli storici hanno sovente usato ed abusato del termine rivoluzione per significare un mutamento radicale, ma nessuna Rivoluzione è stata così drammaticamente rivoluzionaria come la Rivoluzione Industriale – salvo forse la Rivoluzione neolitica. Ambedue queste rivoluzioni cambiarono per così dire il corso della storia, creando ciascuna di esse una discontinuità nel processo storico» (“La Rivoluzione Industriale”, Utet, Torino, 1980). Anche lo storico inglese R. Hartwell, uno dei massimi esperti della rivoluzione industriale, ha definito questo evento come “la grande discontinuità” (The Great Discontinuity, in “The Industrial Revolution and Economic Growth”, London, 1971).
[2] M. N. Rothbard, “Per una nuova libertà”, Liberilibri, Macerata, (1973) 1996, p. 18.
[3] Per una impressionante comparazione tra le condizioni di vita delle masse prima e dopo la rivoluzione industriale, si vedano S. Ricossa, “Storia della fatica”, Armando, Roma, 1974, e P. Melograni, “La modernità e i suoi nemici”, Mondadori, Milano, 1996.
[4] R. Hartwell, ha dimostrato che in Inghilterra il reddito pro capite aumentò del 50 percento fra il 1700 e il 1780; dal 50 al 100 percento tra il 1780 e il 1850; poi ancora dall’80 al 100 percento tra il 1850 e il 1914 (L’aumento del livello di vita in Inghilterra dal 1800 al 1850, in F. A. von Hayek (cur.), “Il capitalismo e gli storici”, Bonacci, Roma, (1954) 1991, pp. 157-190).
[5][5] Per lo storico E. P. Thompson «è quindi perfettamente lecito sostenere due tesi che a prima vista sembrano contraddirsi, che cioè il periodo 1790-1848 vide un leggero aumento del medio livello materiale di vita e che nello stesso periodo lo sfruttamento, l’insicurezza e la sofferenza crebbero. Nel 1840 si stava “meglio” di cinquant’anni prima, ma si era sofferto e si continuava a soffrire come un’esperienza catastrofica questo piccolo passo in avanti» (“Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra”, Il Saggiatore, Milano, 1969, vol. 1, p. 210). Questo in realtà è un fenomeno frequente nella storia, ed è facilmente spiegabile con l’enorme aumento delle aspettative che il progresso tecnologico e industriale aveva suscitato: se la fame di massa, la povertà e le malattie erano considerate fenomeni inevitabili nel precedente mondo agricolo, tutto questo iniziò a non essere più tollerato quando, con l’avvento delle fabbriche, il benessere a portata di tutti entrò a far parte del mondo dei “possibili”. Si spiega così l’apparente paradosso del sorgere del socialismo nel periodo di massimo avanzamento storico delle condizioni di vita delle masse, e non in uno qualsiasi dei ben più tragici secoli precedenti.
[6] F. A. von Hayek, Storia e politica, in F. A. von Hayek (cur.), “Il capitalismo e gli storici”, cit. pp. 26-27.
[7] V. H. Hutt, Il sistema della fabbrica nel primo ottocento, in F. A. von Hayek (cur.), “Il capitalismo e gli storici”, cit. pp. 151 ss.
[8] L’inserimento degli anarchici comunisti fra i socialisti di Stato necessita di una spiegazione. Il punto cruciale è che lo sbandierato antistatalismo di Bakunin o di Kropotkin è in contraddizione con la loro condanna della proprietà privata e delle relazioni di mercato. Il collettivismo – come dice la parola stessa – è per definizione incompatibile con la libertà individuale, ed è quasi sempre sinonimo di statalismo. Il tentativo di mettere in pratica l’anarchia collettivista non può che condurre ad un sistema totalitario, in cui le persone sono completamente sottomesse al “collettivo” – cioè allo Stato, indipendentemente dal nome con cui l’autorità suprema viene camuffata. Non c’è quindi da meravigliarsi se nell’unico caso in cui gli anarchici collettivisti hanno avuto la possibilità di mettere in pratica le loro idee, durante la guerra civile spagnola, nelle zone da loro controllate abbiano instaurato una spietata tirannia, caratterizzata da collettivizzazioni forzate della terra in stile staliniano, persecuzioni religiose, condanne a morte per l’uso e il possesso del denaro, esecuzioni sommarie, e altre violenze. Nessun pensatore anarco-collettivista è infatti mai riuscito a spiegare come possa essere garantita la libertà dell’individuo in un sistema in cui non esiste la proprietà privata (perchè tutto ciò che uno produce viene confiscato e redistribuito dal collettivo), e in cui vengono bandite le relazioni di scambio volontario tra gli uomini. Per questa ragione solo gli anarchici individualisti possono essere considerati a buon diritto avversari dello Stato. Infatti, delle due l’una: o il comunismo propugnato dagli anarchici è volontario, e allora si rientra nell’anarco-individualismo (o anarco-capitalismo, o anarco-liberismo); oppure è obbligatorio, e allora il sistema è totalitario e non libertario. Si veda al riguardo l’introduzione L’individualismo anarchico di Alberto Mingardi e Guglielmo Piombini a “Anarchici senza bombe. Il nuovo pensiero libertario”, StampAlternativa, Viterbo, 2001.
[9] M. N. Rothbard, “Per una nuova libertà”, cit., p. 33.
[10] Quasi tutte le indicazioni contenute in questo paragrafo sono tratte dall’eccellente lavoro di E.F. Biagini, “Il liberalismo popolare. Radicali, movimento operaio e politica nazionale in Gran Bretagna 1860-1880”, il Mulino, Bologna, 1992.
[11] M. N. Rothbard, “Per una nuova libertà”, cit., p. 29.
[12] G. Stedman Jones, Languages of Class, Cambridge University Press, 1983, p. 135-156.
[13] T.C.Smout, “A Century of the Scottish People 1830-1850”, London, Fontana, 1987, p. 234.
[14] E. F. Biagini , Il liberalismo popolare, cit., pp. 66-154 . E’ esemplificativo questo passaggio apparso sul giornale operaio Reynold’s Newspaper del 29 settembre 1969: “[verso chiunque] arditamente imbarca la sua fortuna in un’intrapresa fondata sul lavoro produttivo, distribuendo i più alti salari che possono essere guadagnati, dopo la soddisfazione degli oneri per la ricostituzione del capitale e di una giusta quota come profitto…l’operaio inglese può mostrare profondo rispetto. Gli uomini da temere sono i signori terrieri che …escludono deliberatamente il popolo da migliaia di acri lasciati in abbandono o non coltivati”.
[15] Secondo la rivista operaia Bee-Hive la dottrina marxista “non era pensiero inglese quale esista presso qualchessia categoria di persone…Coloro che lavorano sottosuolo o sul suolo ne riderebbero. I lavoratori nei settori del cotone, della lana, del lino, o del ferro, lo tratterebbero con disprezzo. I mendicanti internati nelle nostre workhouse lo considererebbero come un segno della pazzia del mondo esterno. I fannulloni male in arnese che cercano di scroccare una pagnotta bazzicando vicino alle workhouse prenderebbero a pugni coloro che propagandassero tali dottrine per aver tentato di rovinare il loro mestiere coll’estenderlo alle masse” (Lloyd Jones, Bee-Hive, 20 settembre 1872, p. 2).
[16] E. F. Biagini , Il liberalismo popolare, cit., p. 126.
[17] Free Trade and self government, in “Labour Standard”, 1, ottobre 1881, p. 7.
[18] In “Cooperative news”, 5 dicembre 1885, p. 1907.
[19] Scriveva il “Lloyd’s Weekly” del 28 ottobre 1866, p. 1: “Fu una nobile lotta…una lotta in cui l’aristocrazia terriera lottò contro il popolo, pensando che la pagnotta a poco prezzo dell’operaio la si potesse avere solo a loro spese…Ma i profitti del commercio…hanno mostrato ogni anno di più la fallacia del loro ragionamento, e l’infondatezza delle loro paure egoiste.”
[20] J. Arch, “Story of His Life”, London, 1898, p. 312.
[21] E. Biagini, “Il liberalismo popolare”, cit. p. 128.
[22] ibidem, pp. 182-183.
[23] G. Howell, “Bee-Hive”, 25 febbraio 1871, pp. 2-3.
[24] Samuel Smiles, tipico esponente della mentalità vittoriana, si dedicò per tutta la vita alla diffusione del “vangelo del lavoro”: nel suo famoso libro “Self-help”, che ebbe uno straordinario successo in tutto il mondo (in Italia venne tradotto col significativo titolo “Chi si aiuta Dio l’aiuta”, Milano, 1871), affermava di voler “reinculcare la lezione antiquata, e forse mai abbastanza ribadita, che la gioventù deve lavorare per essere felice, che niente di onorevole può compiersi senza applicazione e diligenza, che chi studia non deve lasciarsi scoraggiare dalle difficoltà, ma deve vincerle con pazienza e la perseveranza, e che, soprattutto, deve aspirare alla propria elevazione spirituale, senza la quale l’abilità non ha valore e il successo mondano è zero”. Infatti “Fidare nelle proprie forze è fondamento d’ogni progresso, sorgente di potenza al cittadino e alla nazione. L’aiuto altrui spesso indebolisce; quello all’opposto che si cava da noi medesimi invigorisce sempre. Ed è naturale: perché altri facendo per noi ci scema colla necessità lo stimolo di fare. Il che spiega la fiacchezza e l’impotenza de’ popoli soggetti a troppo rigorosa tutela del governo”.
[25] “Bee-Hive”, 19 marzo 1864, p. 3.
[26] Ibidem, p. 178.
[27] Gracchus, “Reynold’s Newspaper”, 15 luglio 1874, p. 3.
[28] L’ideologia dei radicali inglesi era profondamente permeata dalla visione contrattualista painiana e lockiana, la quale affermava la priorità logica e cronologica della società civile sullo Stato, nella convinzione che tanto più una società è perfetta, tanto meno ha bisogno del governo. Secondo una tipica versione quasi-anarchica di questo contrattualismo, frequente nella stampa popolare, ad uno stato di natura di individui liberi ed uguali, in cui vigeva un lockiano diritto di proprietà sui frutti del proprio lavoro, seguì un periodo di degenerazione in cui bande di ladri ed assassini iniziarono a fondare il proprio potere con la violenza: ebbe così origine la nobiltà terriera. La guerra di tutti contro tutti cessò quando i vari signorotti, stanchi di combattersi a vicenda, affidarono a uno di loro un potere superiore, originando così la monarchia. La lotta dei radicali plebei contro l’aristocrazia e la corona era vista quindi come un ritorno alla felice età dell’oro pre-aristocratica (storicamente individuata nell’Inghilterra sassone anteriore alla conquista normanna), quando la società aveva fatto a meno del governo (E. Biagini, “Il liberalismo popolare”, cit., pp. 122-123).
[29] Reynold’s Newspaper del 7 dicembre 1979.
[30] Nothumbrian, Reynold’s Newspaper, 4 marzo 1866, p.3.
[31] Reynold’s Newspaper 30 aprile 1882.
[32] Le tasse infatti, come spiegava il segretario delle Trade Unions Howell, erano paragonabili «ad un enorme rendita o ad una pesante ipoteca sull’industria. Questa cifra deve essere pagata prima che si possa cominciare a fare profitti, o perfino a pagare i salari. Dire che questa tassazione non ha effetto pregiudizievole sull’industria equivale a dire che una pesante ipoteca, o una rendita fondiaria, non farebbe differenza nel reddito di coloro che possiedono proprietà».G. Howell in W.L. Bernard e A.Reid, “Bold Retrenchement, or the Liberal Policy which will save One-half of the national Expenditure”, London 1888, p. 48.
[33] Gracchus, Reynold’s Newspaper 30 gennaio 1873, p. 3.
[34] Citato in G.M. Trevelyan, “The Life of John Bright”, p. 307.
[35] W.O. Reichert, “Toward a New Understanding of Anarchism”, Western Political Journal, 20, 1967, p. 857. L’unico pensatore europeo che abbia esercitato una certa influenza sugli anarchici americani autoctoni fu Proudhon, in quanto le sue idee sulla sovranità dell’individuo, sulla cooperazione volontaria e sulla proprietà non apparivano in contrasto con i valori della Rivoluzione Americana. Sull’influenza di Proudhon negli Stati Uniti si veda P. Avrich, “Anarchist Portrait”, Princeton, 1988, pp. 137-143.
[36] A. Donno, “Anarchismo e tradizione politica americana”, Rivista storica dell’anarchismo, n. 1, gennaio-giugno 1994, pp. 49-52.
[37] Sul Far West come esperimento vincente di anarco-capitalismo rimando al saggio Far West: l’epoca libertaria della storia americana contenuto in questo libro.
[38] Murray N. Rothbard, pur criticando le idee monetarie degli anarchici individualisti (in realtà con argomentazioni non del tutto convincenti, correlate alla sua strana opposizione alla privatizzazione della moneta in nome del gold standard), ha espresso la sua ammirazione per questa scuola affermando che “Lysander Spooner e Benjamin Tucker sono, a mio avviso, insuperati come filosofi politici e che nulla è più necessario oggi di una rinascita e uno sviluppo della loro eredità dimenticata…Il mio principale motivo di dissenso con la dottrina Spooner-Tucker non è di natura politica ma economica…in quanto tale la divergenza non è di carattere etico, ma scientifico” (M. N. Rothbard, “The Spooner-Tucker Doctrine: An Economic View”, in A Way Out, Maggio-giugno 1965, ora in L. Settembrini, “Il labirinto rivoluzionario”, vol. II, Rizzoli, Milano, 1979, pp. 173-174.). Sulla moderna dottrina libertaria, erede diretta e perfezionatrice dell’anarco-individualismo ottocentesco, si veda, in lingua italiana, M.N. Rothbard, “L’etica della Libertà, Liberilibri, Macerata, 1996 (1982); idem, “Per una nuova libertà”, cit.; D. Friedman, “L’ingranaggio della libertà”, Liberilibri, Macerata, 1997 (1973); W. Block, Difendere l’indifendibile”, Liberilibri, Macerata, 1993 (1976). Per una panoramica generale si veda R. Cubeddu, “Atlante del liberalismo”, Ideazione, Roma, 1997, mentre per un aggiornamento sulle ultime tendenze libertarie d’oltreoceano possono risultare estremamente utili le interviste contenute in A. Mingardi, “Estremisti della libertà”, Leonardo Facco editore, Treviglio, 1999, nonché la rassegna di A. Mingardi, “L’arcipelago libertario”, Elite, anno III, n. 1, gennaio-marzo 1999. Infine, per una rassegna bibliografica sull’argomento, si veda N. Iannello, “Dei libertari. Saggio bibliografico”, Elite, anno III, n. 1, gennaio-marzo 1999.
[39] Tucker individua poi la nascita della dottrina socialista nella teoria del valore-lavoro di Adam Smith (e in ciò possiamo apprezzare la critica di Murray N. Rothbard a Smith, colpevole con questa errata teoria di aver messo fuori strada la scienza economica per quasi un secolo): «I principi economici del Socialismo Moderno sono la logica deduzione del principio esposto da Adam Smith nei primi capitoli della sua “Ricchezza delle nazioni”, cioè che il lavoro è la vera misura del valore… Mezzo secolo o più dopo che Smith aveva enunciato il suo principio, il Socialismo l’ha ripreso nello stesso punto in cui egli l’aveva lasciato, e seguendolo fino alle sue logiche conclusioni ha costruito le basi di una nuova filosofia economica. Questo è stato realizzato, a quanto sembra in maniera indipendente, da tre diversi uomini: Josiah Warren, un americano; Pierre J. Proudhon, un francese; Karl Marx, un ebreo tedesco…Partendo dal principio di Smith che il lavoro è la vera misura del valore – o, per dirla con Warren, che il costo è il giusto limite del prezzo – questi tre uomini hanno sviluppato le seguenti deduzioni: che la ricompensa naturale del lavoro è costituita dal suo prodotto; che questo salario è l’unica giusta fonte di reddito (a parte, naturalmente, i regali, l’eredità, ecc.); che tutti i redditi derivanti da altre fonti vengono sottratti direttamente o indirettamente al giusto e naturale salario del lavoro; che questo processo di sottrazione generalmente assume una di queste tre forme: interesse, rendita, e profitto» (B. Tucker, “State Socialism and Anarchism: How Far They Agree and Wherein They Differ”, in Individual Liberty. Selections From the Writings of Benjamin R. Tucker, Vanguard Press, New York, 1926).
[40] “Anarchism and Crime”, in Individual Liberty. Selections From the Writings of Benjamin R. Tucker, Vanguard Press, New York, 1926.
[41] B. Tucker, “Strikes and Forces”, in Individual Liberty, cit.
[42] B. Tucker, “Liberty or Authority”, in Individual Liberty, cit.
[43] B. Tucker, “Instead of a Book, by a Man too Busy to Write One”, New York, 1893, p.112. «[Occorre capire] che la difesa è un servizio come un altro; che è un lavoro utile e richiesto; che si tratta quindi di un bene soggetto alla legge della domanda e dell’offerta; che in un mercato libero un tale bene sarebbe fornito al costo di produzione; che, in presenza di competizione, le preferenze dei consumatori andrebbero a coloro che forniscono il miglior prodotto al minor prezzo; che la produzione e la vendita di questo servizio sono oggi monopolizzate dallo Stato; che lo Stato, come quasi ogni altro monopolista, chiede prezzi esorbitanti; che, come quasi tutti i monopolisti, fornisce un prodotto senza valore, o di valore minimo; che, così come un monopolista di prodotti alimentari fornisce spesso veleno invece di cibo, allo stesso modo lo Stato approfitta del suo monopolio della difesa fornendo invasione invece di protezione; che, proprio come il cliente dell’uno paga per essere avvelenato, così il cliente dell’altro paga per essere schiavizzato; e, infine, che lo Stato supera in scelleratezza tutti i propri colleghi monopolisti perché gode del privilegio unico di costringere chiunque a comprare i suoi prodotti indipendentemente dal fatto che vengano richiesti o meno. Se dunque cinque o sei “Stati volontari” iniziassero a esporre le proprie insegne, io penso che la gente sarebbe in grado di comprarsi la sicurezza di miglior qualità ad un prezzo ragionevole. E, perdipiù, migliore sarà il loro servizio, meno ce ne sarà bisogno; in questo modo dalla moltiplicazione degli “Stati” si arriverà all’abolizione dello Stato» (B. Tucker, “Liberty and Taxation”, in Individual Liberty, cit.)
[44] Tucker (ibidem) spiega inoltre le ragioni per cui non si dovrebbe aver nulla da temere dagli eventuali conflitti tra le agenzie di protezione: «I conflitti risultanti da una molteplicità di Stati non sarebbero che una piccola escrescenza, rispetto alla montagna di oppressione e ingiustizia che gradualmente un unico Stato coercitivo erigerebbe. Non sarebbe necessario per un ufficiale di polizia di uno “Stato” volontario sapere a quale “Stato” un certo individuo appartenga, o se appartenga a qualcuno di essi. Gli “Stati” volontari potrebbero autorizzare i loro agenti, e con tutta probabilità lo farebbero, a procedere contro tutte le invasioni, senza preoccuparsi di stabilire chi siano l’invasore o l’invaso. Mr. Read obietterebbe probabilmente che lo “Stato” al quale l’invasore apparteneva potrebbe considerare il suo arresto come un’invasione essa stessa, e agire contro lo “Stato” che l’aveva arrestato. La prevenzione di tali conflitti sarebbe assicurata probabilmente con trattati uguali a quelli che gli Stati concludono tra loro, o anche con l’istituzione di tribunali federali e corti di ultima istanza, attraverso la cooperazione volontaria dei vari “Stati”, sempre in accordo con lo stesso principio volontaristico sul quale gli “Stati” stessi sono organizzati».
[45] G. Angelini, “L’altro socialismo”, Franco Angeli, Milano, 1999, p. 10.
[46] G. Angelini, “L’altro socialismo”, cit., p. 13.
[47] «Infatti, mentre Blanc nutre fiducia nello Stato e lo ritiene capace di trasformarsi nel “banchiere dei poveri” e porre così fine al regime concorrenziale e agli squilibri sociali che ne derivano attraverso una serie di istituti ad hoc, in cui i lavoratori diventeranno proprietari dei mezzi di produzione oltre che prestatori d’opera, Bignami, invece, non è affatto disposto ad affidare al governo un ruolo attivo nel processo di emancipazione del proletariato, perché lo crede connivente con i ceti imprenditoriali e quindi corresponsabile delle misere condizioni di vita delle masse popolari» (G. Angelini, “L’altro socialismo”, cit., p. 45.
[48] Il lavoro, in “La plebe”, 18 luglio 1868.
[49] La Rivoluzione dei proletari, in “La Plebe”, 4 febbraio 1872.
[50] Il proletarismo, in “Il Proletario”, 10 settembre 1864.
[51] O. Gnocchi-Viani, Nostre corrispondenze, “La Plebe”, 27 giugno 1874.
[52] O. Gnocchi-Viani, Il socialismo moderno, Tipografia Pugni, Milano, 1886, pp. 7-15.
[53] O. Gnocchi-Viani, Il nostro ideale, Tipografia Annoni, Milano, 1882, pp. 7-15.
[54] Così G. Angelini, “L’altro socialismo”, cit., p. 162 s.
[55] O. Gnocchi-Viani, “I partiti politici e il Partito operaio”, Tipografia sociale, Alessandria, 1888.
[56] G. Angelini, “L’altro socialismo”, cit., p. 186 s.
[57] ibidem, p. 191
[58] Z. Sternhell, “Nascita dell’ideologia fascista”, Baldini e Castoldi, Milano, 1993 (1989), p. 25.
[59] L’antistatalismo dei sindacalisti rivoluzionari fu a dir la verità piuttosto ambiguo, e non sfociò mai in aperte professioni di anarchismo. Come ha osservato G. Berti (“Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento”, Lacaita, Manduria, 1998, p. 805) il sindacalismo tendeva non ad abolire il principio d’autorità, ma a trasferirlo dallo Stato al sindacato. Pur negando lo Stato, i sindacalisti rivoluzionari non negavano ogni forma di organizzazione autoritaria della società. Queste idee posero le premesse per la successiva adesione di molti sindacalisti all’interventismo, al nazionalismo, e al corporativismo fascista.
[60] Z. Sternhell, “Nascita dell’ideologia fascista”, cit., p. 38. Va osservato che una parziale rivalutazione del mercato e della libertà economica apparve anche in quei filoni del “socialismo libertario” o del “socialismo liberale”, i cui nomi più rilevanti furono in Italia quelli di Francesco Saverio Merlino e, successivamente, di Camillo Berneri, di Carlo Rosselli e di Bruno Rizzi. Il socialismo liberale o libertario non giunse mai però, come le correnti del socialismo liberista, ad una piena e totale accettazione della società del laissez-faire. Il suo fu un tentativo, spesso difficile e contorto, di conciliare alcune idee collettiviste del socialismo statalista con la tradizione liberale, mentre l’impostazione del socialismo liberista fu quella di dimostrare da un lato che il proletariato avrebbe migliorato le proprie condizioni se solo si fosse raggiunta la piena libertà economica per tutti, e dall’altro che la società borghese del tempo non era abbastanza liberale in economia. La collocazione di Merlino e degli altri liberalsocialisti fu dunque intermedia tra il socialismo di Stato e il socialismo liberista, e per questa ragione non verranno presi in considerazione in questo scritto.
[61] Come spiega in maniera estremamente chiara Pierre Androu (“Le Socialisme de Sorel”, in L’Homme nouveau, n. 17, giugno 1935): “Del marxismo Sorel accetta soltanto la guerra tra le classi, che è per lui l’essenza e la speranza del socialismo. Sorel non oppone il socialismo al capitalismo; egli oppone, in una guerra eroica, il proletariato alla borghesia. Sorel tuona molto di più contro la borghesia che contro il sistema di produzione capitalistico. Egli critica ferocemente tutti i sistemi socialisti; non critica, invece, il capitalismo.”
[62] G. Sorel, “Idees socialistes et faits economiques au XIX siecle, in La Revue socialiste, XXXV, 1902, p. 519.
[63] Scriveva ad esempio l’economista liberale De Viti De Marco: “Oggi… il grido dei contadini è stato: pane e lavoro. Ma essi ignorano perchè sia caro il pane e scarso il lavoro; essi non sanno nè che il dazio sul grano ha acuito la carestia, nè che il protezionismo ha ridotto i redditi fondiari e i salari agricoli, nè che le eccessive spese militari e le conquiste africane impongono tributi sproporzionati alle risorse del paese, nè che i tributi finiscono per ricadere prevalentemente su di loro” (A. De Viti De Marco, “Dopo i tumulti di Milano”, in Giornale degli economisti, giugno 1898; poi in “Un trentennio di lotte politiche”, Roma, 1929, pp. 243 ss.). Lo stesso Vilfredo Pareto, uno dei più intransigenti critici del marxismo, decise di collaborare alla rivista socialista Critica sociale in nome della comune battaglia antiprotezionista. In un articolo pubblicato dal quindicinale socialista nel febbraio 1998, egli scrisse: “Gli Stati dove i grossi possidenti dominano mantengono naturalmente i dazi che alla classe dominante sono favorevoli, sia che quella classe costituisca un’aristocrazia militare, come in Germania, o una plutocrazia, come in Francia; gli Stati invece, come l’Inghilterra e la Svizzera, ove il popolo ha potuto, almeno in parte, scuotere quel giogo, non hanno il dazio sulla fame… Benedetto Croce mi taccia di idealista perchè, essendo liberale, in molte cose consento coi socialisti. A me non pare di meritare quel rimprovero. Sarebbe, parmi, opera da stolto, se dopo di avere difeso per tutto il corso della mia vita la libertà degli scambi, mi volgessi ora a difendere la protezione, solo perchè i socialisti vogliono l’abolizione del dazio sui cereali” (V. Pareto, “Protezionismo italiano”, in Critica Sociale, anno VIII, n. 4, 16 febbraio 1898, p. 49).
[64] G. De Rosa, “La crisi dello stato liberale in Italia”, Studium, Roma, 1955, pp. 87 e 106.
[65] R. Soldi, “La politica economica del partito socialista”, in Critica sociale, 1900, p. 198.
[66] R. Soldi, “Le varie correnti nel partito socialista italiano”, in Giornale degli economisti, giugno 1903, pp. 523 s.
[67] R. Soldi, “La politica economica del partito socialista”, cit., p. 199.
[68] ibidem, p. 525. Soldi aggiunge poi che “la legislazione sociale può avere un’efficacia economica molto ristretta, mentre può servire soltanto a dare le forme giuridiche all’azione dei lavoratori, a sanzionare delle consuetudini oramai stabilite o a completare in parte molto ristretta l’iniziativa delle masse operaie”.
[69] Arturo Labriola, nella sua relazione al congresso socialista di Imola, aveva nella sorpresa generale contestato l’esercizio statale delle ferrovie. Molti socialisti, inoltre, erano contrari al sussidio dato dallo Stato alle compagnie ferroviarie affinchè ampliassero l’organico dei ferrovieri. Essi avrebbero preferito un governo neutrale, che lasciasse ai ferrovieri la libertà di strappare direttamente alle compagnie i vantaggi ai quali credevano di aver diritto, con la pura forza delle organizzazioni. Così Enrico Ferri, “Il coraggio della libertà”, ed Enrico Leone, “Il diritto di sciopero nei servizi pubblici”, in Socialismo, n. 2, 1902.
[70] R. Soldi, “Le varie correnti nel partito socialista italiano”, cit., p. 526.
[71] ibidem, pp. 526-527.
[72] G. De Rosa, “La crisi dello stato liberale in Italia”, cit., p. 124.
[73] Scriveva Soldi (“Le varie correnti del partito socialista italiano”, cit., p. 528): “Tantochè Filippo Turati ci poteva scambiare a volte per dei bernsteiniani, a volte per degli anarchici, perchè negavamo una grande importanza alla legislazione sociale ed all’azione parlamentare, parendo compito principale del partito socialista di sviluppare l’opera diretta delle masse, di instillare a ciascuno la fiducia nelle proprie forze, di combattere l’accentramento dello Stato e quindi anche, in parte, l’influenza del parlamento”
[74] Z. Sternhell, “Nascita dell’ideologia fascista”, cit., p. 202.
[75] Così P. Favilli, “Economia e politica del sindacalismo rivoluzionario”, in Studi storici, XVI, n. 1, 1975.
[76] E. Leone, “La revisione del marxismo”, Roma, 1909, p. 67.
[77] E. Leone, “Nuovi orizzonti socialisti”, in Critica sociale, 1889, p. 252.
[78] ibidem, p. 252.
[79] E. Leone, “La revisione del marxismo”, cit., p. 70. Leone pensa infatti che sia il socialista che il liberista radicale mirino agli stessi fini: il livellamento sociale, l’abolizione delle classi, l’armonia egli interessi umani, e cita a proprio sostegno la famosa Lettre aux socialistes del grande economista libertario francese Gustave de Molinari, il primo teorico della privatizzazione delle funzioni di protezione e sicurezza (E. Leone, “Le coalizioni operaie e il liberismo”, in La Critica sociale, 1 agosto 1900, pp. 231-235). De Molinari viene ricordato spesso, e sempre con accenti positivi, negli scritti di Leone. Di questo vero e proprio anarco-capitalista ante litteram si veda in italiano lo scritto pionieristico Sulla produzione della sicurezza, in F. Bastiat-G. de Molinari, “Contro lo statalismo”, Liberilibri, Macerata, 1994, con l’ottima postfazione di Carlo Lottieri.
[80] E. Leone, “Nuovi orizzonti socialisti”, cit. p. 251.
[81] Z. Sternhell, “Nascita dell’ideologia fascista”, cit., p. 203.
[82] In un passaggio Leone chiarisce le proprie posizioni rispetto a quelle degli anarchici-individualisti: «Ad alcuni apparirà che le linee generalissime che abbiamo schizzate colgano la caratteristica delle scuole dell’anarchismo individualista, e non è. Mentre il Proudhon, da cui tali correnti originano, respingendo l’economia politica siccome una riduzione all’assurdo, ed il socialismo (comunismo e collettivismo) come una chimera, dà un salto nel vuoto; mentre il contemporaneo Tucker, con la teorica delle associazioni libere e con le vedute antistatali, formula una teorica di opposizione alla economia officiale, nel caso del neo-liberismo si tratta invece di accettare, sviluppandone le ultime conseguenze, tutti i teoremi fondamentali che la economia politica ha conquistato alla scienza».(E. Leone, “Nuovi orizzonti socialisti”, cit., p. 254)
[83] E. Leone, “Nuovi orizzonti socialisti”, cit., pp. 252 e 253. Pur recriminando per il fatto che “In Italia sul terreno delle organizzazioni sindacali non si è formata – come in Inghilterra – una corrente di liberalismo politico-operaio”, Leone polemizzava con quei liberali, come Pareto, che giudicavano l’azione sindacale come contraria alla libertà economica: «l’operaio ha diritto, come ogni prestatore di servigi, di stabilire da sè stesso il proprio prezzo, cioè il proprio salario. E’ contrario al concetto della concorrenza ogni mezzo inteso ad inibire questa libertà di valutazione dell’operaio: la coalizione invece lo avvicina a questa condizione di libertà. Lo scambio presuppone il consenso di due volontà: il contratto di lavoro non dev’essere scritto dal solo capitalista, ma da entrambi i contraenti, conforme al loro reciproco apprezzamento subiettivo…Ora, se a combattere l’inibizione della concorrenza tra questi due servigi, considerati nel loro rapporto di scambio, è necessaria la coalizione, questa si risolve in un mezzo liberistico. Essa infatti, in quanto attende a stabilire, come ora si vedrà, il dominio della competizione nel campo della distribuzione della ricchezza, tende ad attuare un sistema di liberismo integrale….La lotta per ristabilire tale competizione è la lotta di classe, la quale è appunto la tendenza a ristabilire la legge fondamentale economica, ora violentata» (E. Leone, “Le coalizioni operaie e il liberismo”, cit., pp. 231-235).
[84] E. Leone, “Nuovi orizzonti socialisti”, cit., pp. 253-254. Come si sa, questa concezione neoclassica della concorrenza pura e perfetta in cui il profitto è zero è contestata dalla moderna scuola austriaca, in particolare da Israel Kirzner, in quanto astratta e irreale. Nel mondo degli uomini in carne ed ossa non esistono mercati in equilibrio perfetto, e la concorrenza è un processo continuo di scoperta e adattamento, in continua mutazione, non uno stato finale d’equilibrio raggiungibile.
[85] Z. Sternhell, “Nascita dell’ideologia fascista”, cit., p. 209.
[86] “Il convegno preparatorio a Roma. L’azione dei Sindacalisti secondo Enrico Leone”, in Il Divenire Sociale, 16 giugno 1910, p. 3.
[87] E. Leone, “Nuovi orizzonti socialisti”, cit., p. 254.
[88] A. Labriola, “Riforme e rivoluzione sociale”, Lugano, 1906, p. 10.
[89] Sulla “società di produttori liberi”, si veda A. Labriola, “I limiti del sindacalismo rivoluzionario”, in Il Divenire Sociale, 1 agosto 1910, pp. 212-215 e 6 agosto 1910, pp. 226-230.
[90] A. Labriola, “Syndicalisime et reformisme”, in Le Mouvement socialiste, n. 168-169, 15 dicembre 1905, p. 412.
[91] Nel campo anarchico e socialista Francesco Saverio Merlino era stato il primo in Europa a dare inizio, già nel 1890, alla critica economica del marxismo, mantenendo una posizione di equilibrio tra le diverse anime del revisionismo. Fondamentale nella sua opera fu la rivalutazione del mercato e la valorizzazione della teoria austriaca del valore soggettivo. Si deve a Raimondo Cubeddu e a Giampietro Berti la recente riscoperta delle intuizioni di questo autore, a lungo misconosciuto ed osteggiato dall’ortodossia marxista (R. Cubeddu, “Estremisti per le libertà”, in Ideazione, anno III, n. 5, settembre-ottobre 1996, pp. 105-112, e G. Berti, “Merlino: socialista, liberale, libertario”, ibidem, pp. 138-147).
[92] A. Labriola, “La crisi della teoria socialistica”, in La Riforma sociale, anno V, vol. VIII, 1898, p. 1156.
[93] A. Labriola, “Riforme e rivoluzione sociale”, Milano, 1904, ora in AAVV, “Il mito del collettivismo”, Sugarco, Milano, 1983, pp. 150 s.
[94] A. Labriola, “La decadenza della civiltà”, cit. , p. 82.
[95] ibidem, p. 82. Sulla nuova teoria del conflitto di classe, che oppone lavoratori del settore privato ai membri dello Stato, si veda: L. De Marchi, “Il manifesto dei liberisti”, Seam, Roma, 1995; C. Stagnaro, “Processo all’imposizione fiscale: tassati di tutto il mondo, unitevi!”, Federalismo & Libertà, n. 3, maggio-giugno 1998, pp. 121-154; G. Piombini, “La teoria liberale della lotta di classe”, Il Fenicottero, Bologna, 1999
[96] A. Labriola, “La decadenza della civiltà”, cit. , p. 366.
[97] ibidem, pp. 59 ss.
[98] ibidem, pp. 70 e 375.
[99] D. Losurdo, “Il revisionismo storico”, Laterza, Bari, 1996, pp. 186 s.; E. Forcella-A. Monticone, “Plotoni di esecuzione”, Laterza, Bari, 1998, p. XXI.
[100] M. N. Rothbard, “Per una nuova libertà”, cit., p. 34.
[101] Per un’acuta analisi sociologica della realtà del Nord-Est, si veda C. Lottieri, “Se i veneti ignorano Stato e politica”, Federalismo & Libertà, n. 3, maggio-giugno 1998, pp. 209-241.”