Sull’immigrazione

Alcuni concetti fuorvianti che fanno parte della dialettica politica quotidiana inerente l’immigrazione:

– Non possiamo accogliere tutti perché non ci sono risorse. Ed anche il suo contrario: dobbiamo accogliere chiunque.

La parola sbagliata alla base di queste affermazioni è “accogliere”.

Per il liberalismo, il problema dell’accoglienza non esiste. “Accogliere” non è compito di una autorità pubblica. Chiunque dovrebbe poter liberamente entrare ed uscire ad una sola condizione: che non nuoccia ai diritti degli individui. Il “permesso di soggiorno” è una aberrazione per il liberalismo. Al contrario, diventa importante il “foglio di via” nel solo caso di illeciti contro la persona.

Ma per poter verificare la condizione di chi entra ed esce, nonché le sue intenzioni, sarebbe essenziale una cosa: la sua identificazione. Un individuo non esiste se non è identificato, come peraltro richiamato già nella terminologia fondamentale della dottrina.

Quindi: il problema non è “accogliere”, bensì “identificare”. Basta questo per capire se un qualunque individuo può entrare od uscire. E, ovviamente, un sistema efficace di difesa dei cittadini.

Le “risorse” non significano nulla per il liberalismo. In una società libera, qualunque individuo che voglia rimboccarsi le maniche non può che essere benefico per la società. E se non vuole esserlo, fatti suoi, basta che non nuoccia. La riclassificazione di uno straniero da individuo a cittadino, con tutti i vantaggi che comporta, deve passare semplicemente per la dimostrazione di questo concetto. Anche qui, consiglio di tornare alla terminologia di base.

– Prima i cittadini!

La parola sbagliata, qui, è prima. Per il liberalismo il problema di prima o dopo semplicemente non c’è. Basta sapere qual è, secondo il liberalismo, la differenza tra individuo e cittadino.  Rimando quindi al link sulla terminologia.

– Bisogna prima di tutto affronate il problema religioso.

Questa frase è originata da una conoscenza insufficiente del termine “stato laico”.

Il liberalismo, abbiamo detto, è una filosofia della limitazione del potere politico. Ad esempio, il potere politico non si deve occupare di religione. Questa è una parola che, per l’autorità pubblica, deve essere priva di significato.

Si parlerà invece di gruppi, di sindacati, di associazioni, comunità e sottocomunità. Se vi sono motivi per credere che una certa comunità sia pericolosa per l’incolumità, la libertà, la proprietà di individui e cittadini, essa va sorvegliata. E, se dimostrati pericolsi, sciolti dal punto di vista organizzativo.

Da notare che il rischio della “asocialità”, intesa come caduta dei freni morali rispetto al prossimo, è in generale connesso a tutti quei sottogruppi di una comunità i cui membri si ritengono “diversi”. La differenza annulla la morale naturale, la capacità di immedisimazione, perciò gruppi di questo tipo vanno naturalmente sorvegliati.

Alcuni di questi gruppi possono anche svolgere funzioni benefiche e di volontariato. E per questo, meritare di essere facilitate in questo compito.

Ve ne è poi una, di queste organizzazioni, a cui alla fine dell’ottocento il nascendo Regno Italiano espropriò una certa quantità di proprietà che deve ancora finire di rifondere (e probabilmente non ci riuscirà mai).

Ma la parola “religione”, ed ogni altro termine o concetto o regola inerente il mistero dell’esistenza o dell’aldilà, non riguarda le competenze dell’autorità pubblica. A cui dovrebbe semplicemente essere impedito severamente di occuparsene.

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