Proprietà privata e fondiaria

Come descritto nella premessa generale sulla proprietà, quella privata sarebbe un diritto naturale perché derivante, come la libertà personale, dal diritto fondamentale che è quello alla alla vita, intesa sia come sopravvivenza che come autorealizzazione.

Distinzione tra proprietà privata e proprietà fondiaria.

John Locke, considerato il maggior teorizzatore della proprietà privata[2], separa le due tipologie. La cosa potrebbe sembrare strana, ma il fondatore del liberalismo riteneva veramente che la fondiaria non potesse essere considerata alla stregua della privata.

Se così fosse, ragionava il pensatore, un uomo solo potrebbe detenere il mondo, incompatibilmente col diritto naturale (la morale istintiva) [3].

D’altra parte se la proprietà fondiaria non fosse nella esclusiva disponibilità dell’agricoltore (o dell’estrattore, o di altro produttore che ne necessiti per la sua attività), non vi sarebbe agricoltura [4], né estrazione [5], né alcuno riterrebbe di dover sprecare tempo per vedere il frutto del suo lavoro depredato da altri.

Per sbrogliare la matassa, è necessario ripartire dalle definizioni, interpretate secondo l’etica naturale.

 Definizione di proprietà privata

Secondo Locke [6]: è proprietà privata il frutto del lavoro del suddetto privato.
Da cui si deducono anche i limiti della proprietà ereditaria (qui:[7]), quella intellettuale (qui), e di quella fondiaria.
Questa definizione, neonché le sue deduzioni, è in realtà comune a molti altri filosofi ed economisti, tra cui D.Hume e Henry George (vedere georgismo).

 Definizione di proprietà fondiaria

Consiste nello spazio (campo) che delimita il frutto del lavoro di un privato, al fine di assicurarne la disponibilità esclusiva.

L’imposta fondiaria

Locke spiega come l’istituto della proprietà fondiaria permetta di soddisfare i bisogni degli individui di una comunità molto di più che una terra lasciata incolta [8]. Più oltre, precisa che in cambio di una terra incolta che produce uno, il proprietario può ricavare produzioni dieci o cento volte maggiori o anche di più.

“In cambio di una terra incolta” è significativo. E redimente, in relazione al seguente quesito:

“e se la proprietà fondiaria non venisse lavorata? “

Ebbene, in questo caso, la proprietà del fondo non sarebbe più giustificata. Ma non solo per Locke. Per l’intera storia della proprietà fondiaria. Tutta la contrattualistica delle epoche e dei luoghi in cui l’economia (di cui l’agricoltura costituiva spesso la base) si sviluppava lo dimostra [9]. Ogni contratto di concessione di un terreno da parte dell’amministratore della comunità prevedeva almeno una quota fissa. Ovvero, un’imposta fondiaria. Amministri male o per niente il tuo terreno? A chi non riesce a pagare, converrà cedere la sua concessione, prezzando le eventuali migliorie rispetto allo stato incolto. Lo amministri bene? L’amministrazione che lo ha concesso non può chiedere di più del contratto originale.

E quando non è stato così, cioè in assenza di una imposta fondiaria fissa, si sono creati grandi latifondi incolti, con grave danno per l’agricoltura (anche se ciò, è stato detto altrove, non interessa il liberale giusnaturalista). Una prova storica è rappresentata dai latifondi siciliani sette ed ottocenteschi, i cui proprietari soggiornavano a Napoli lasciando immense proprietà in abbandono. Un’imposta fissa, invece, rende conveniente la vendita di un fondo non lavorato [10], [11].

Limiti dell’imposta fondiaria

Quanto suddescritto sarebbe il principio di diritto. Il fruitore del fondo pagherebbe alla comunità (che va identificata) l’equivalente del beneficio che a questa gioverebbe lasciando il terreno incolto e non confinato.

Prima di tutto, tale principio andrebbe approfondito distinguendo dalla proprietà fondiaria la residenza, la quale è necessaria alla sopravvivenza di un individuo e che quindi dovrebbe essere libera da imposte o riduzioni di alcun tipo.

Inoltre, stimare l’equivalente del beneficio lasciando il terreno incolto e non confinato è abbastanza arbitrario. Questa arbitrarietà, per il pensatore liberale, va sottratta al capriccio di un amministratore pubblico.

Ad esempio, poiché l’imposta sul fondo non ha una origine finanziaria bensì morale, non dovrebbe essere destinata allo stesso ente che la emette [12].

Inoltre, il suo valore andrebbe periodicamente verificato con metodi di confronto paritari. Infine, questo nuovo valore dovrebbe essere soggetto a sorveglianza da un separato potere di garanzia e veto.

Insomma, al principio di diritto, le istituzioni liberali devono sempre prevedere mezzi di sorveglianza e veto della comunità locale nella modalità più diretta possibile. Il cui scopo è evitare che la difesa del diritto si trasformi in sopruso.

Infatti, l’imposta fondiaria fissa in questo paese illiberale c’è. Ciò che manca sono i suoi limiti.


Note a pié di pagina

[1] Non trattiamo cui i tipi considerati diritti secondari o derivati, come la nuda proprietà (normalmente limitata dal contratto di l’usufrutto) o come il legnatico (più simile ad una concessione, ereditabile ma non vendibile), ma i principi non cambiano.

[2] II° trattato sul governo, cap V “Della Proprietà”. Dalla tesi 25 alla 51.

[3] Aggiunge poi altre argomentazioni, tra cui citazioni bibliche, da cui conclude che la terra è degli uomini, intesa come “tutti gli uomini” di una comunità.

[4] L’esperimento sovietico in Ucraina dovrebbe bastare.

[5] L’esempio venezuelano anche.

[6] Tesi 51, conclusiva.

[7] Precisazione: se ne deduce che l’EREDITÀ potrebbe essere un diritto solo come espressione della volontà del defunto. Le leggi sull’eredità attuali invece lo impediscono, impedendo al lavoratore defunto di disporre liberamente del frutto del suo lavoro lasciandolo semplicemente a chi gli pare. E’ però vero che un tempo la famiglia tradizionale costituiva una vera e propria entità economica unica, basata sulla divisione del lavoro, e quindi ambo i coniugi avrebbero giustamente avuto equo diritto alla proprietà generata. (Ma ora non è così. Figurarsi poi il caso di coniugi separati). Come era vero per il figli nella antica società agraria, i quali contribuivano all’attività produttiva sin da piccoli. Insomma, il principio del diritto di chi ha partecipato alla produzione della proprietà è sempre il criterio più corretto ed etico.

[8] E che per questo che l’istituto della proprietà fondiaria sarebbe conveniente per l’intera comunità. Ma la convenienza per la società è un effetto secondario. Il principio fondante per il liberale giusnaturalista è di tipo morale: il frutto del lavoro di un individuo, gli appartiene.

[9] Esempio: economia curtense, ottimamente trattata in “Il medioevo in Italia e in Europa”, vol.2, cap 3/6 di Andrea Babini. Contratti tipo Precaria, Prestaria, Opera, Angheria, Enfiteusi, Livello…
Altro esempio: le partecipanze agrarie, tuttora esistenti.

[10] In altre parole, cosa permette ad una comunità di indurre un proprietario pigro a vendere il proprio fondo (o meglio: il fondo concessogli dal diritto naturale legato all’attività su di esso, che non svolge più)?  È molto semplice: l’imposta fondiaria. È quasi sempre stato così.

[11] Le decime, invece, sono un esempio sbagliato. Corrisponderebbero ad una imposta sul reddito, che a reddito zero semplicemente si azzera. Privando il proprietario di alcun incentivo a vendere quanto non fa fruttare, costituisce un sopruso nei confronti dei membri della comunità a cui il fondo è stato sottratto senza giustificazione.

[12] Ad esempio, andrebbe stimata a livello locale ma destinata ad ente sovralocale.

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