L’ECONOMISTA A GUISA DI SOMARO.
Quando sentiamo il luminare di turno proclamare, come se fosse un’ovvietà, che in Italia “le tasse sono alte”, sta gridando al mondo la propria ignoranza. In Italia, le tasse sono pochissime, poco influenti, e anche la classificabilità come tasse delle poche esistenti è contestabile.
l problema del sistema tributario nazionale sono invece le imposte ed i contributi. Ma ancora: il problema maggiore di questi due tipi di tributi, quello che rende quello italiano uno dei sistemi tributari più vessatori al mondo, non sta tanto nel valore delle aliquote. Né nella cosiddetta pressione fiscale. Bensì nel calcolo dell’imponibile! |
Qualcuno in questo paese l’ha mai detto o scritto? Eppure, dopo aver letto queste poche righe, questa verità sembrerà ovvia. Ed altrettanto scandalosa. Almeno quanto lo è il profilo, a forma di somaro ragliante, di ogni sedicente economista che parla di tasse in questo paese.
E poi, l’IVA. L’imposta indiretta. Quella sul valore aggiunto. Quella che sembra la meno dolorosa da aumentare per pareggiare i deficit di getto. Pensateci. La sua stessa esistenza è priva di senso. E’ ingiustificabile. Incompatibile non solo col liberalismo classico, ma con un qualsiasi principio logico.
Infine, quella nota truffa travestita da contributi pensionistici. Uno scandalo italiano, retaggio del fascismo peggiorato dal parlamentarismo.
Questo e molto altro nel prosieguo di questo post “dipana nebbia”.
Vale qui la pena di citare a premessa Shumpeter: “Lo spirito di un popolo, il suo livello culturale, la configurazione della struttura sociale, le imprese che la sua politica può preparare, tutto ciò, e molto altro ancora, sta scritto nella sua storia fiscale…” (Joseph Schumpeter, 1918; tr. it., p. 133).
DEFINIZIONI
Tasse. Le tasse (in inglese: fees) dovrebbero essere le tariffe pagate per i servizi pubblici il cui costo può essere attribuito direttamente ai soli utenti. Si tratta di servizi tipicamente di tipo locale, quindi con importi differenti a seconda delle zone, e dovrebbero essere sorvegliabili sia dal cittadino che da auspicabili sistemi di comparazione dell’efficienza delle amministrazioni locali. Per essere assoggettato a tassa, il servizio non dovrebbe essere di tipo generale, ovvero riguardare la difesa dei diritti fondamentali dei cittadini (questi vanno salvaguardati indipendentemente dalla disponibilità economica individuale). Deve invece esser opzionale (cioè non obbligatorio) e legata a necessarie funzioni pubbliche di coordinamento e gestione. Tipici esempi dovrebbero essere la tassa sui rifiuti, e quelli che ora si chiamano imporpriamente servizi indivisibili (lo sono, divisibili. Altrimenti non genererebbero una tassa). Un cittadino potrebbe avere una casa, due case, nessuna, tanti conquilini a carico o pochi, cambiare residenza durante l’anno, etc. In funzione dei parametri di carico, pagherebbe di più o di meno oppure niente.
Imposte. Le imposte (in inglese: tax – da qui nasce la confusione e l’equivoco con le tasse), invece, vanno in un calderone generale da cui l’amministrazione pubblica pesca per ogni servizio il cui costo non sia attribuibile solo all’uso soggettivo. Esempi immediati: l’esercito, le ambasciate, la polizia, etc.
Imposte dirette. Sono le imposte sulle persone. Persone fisiche (cioè gli individui) e persone giuridiche (cioè le società). Vi sono due approcci. Quello proporzionale all’imponibile (che ultimamente viene inspiegabilmente chiamata con un termine inglese, e particolarmente stupido, cioè flat tax). E quello progressivo, ovvero quello in cui la proporzionalità stessa aumenta con l’aumento dell’imponibile (in realtà: delle fasce di imponibile).
Imponibile: quella quota di reddito assoggettabile ad imposta. Nei paesi civili, cioè non il nostro, l’imponibile è pari al reddito meno le spese per la sopravvivenza (normalmente forfettizzate [1]) e per la salute di ogni individuo che dipende da quel reddito, e sottraendo anche le tasse pagate, che per definizione sono pagate per servizi necessari alla vita in società (es: tassa sui rifiuti, o per certificati, o per adempimenti burocratici).
Imposte indirette. Tipicamente, sono imposte sulle vendite (di beni o servizi). Cioè sui ricavi (non i redditi) e vengono pagate dal consumatore finale. In Italia vige l’IVA, cioè l’imposta “sul valore aggiunto”. Quivi, oltre ai ricavi, colpisce anche quelle vendite che non sono neanche state pagate, ed anticipate dal venditore. Altre imposte indirette sono le accise ed i dazi.
Accise. Sono imposte indirette, ma si applicano solo a quei prodotti che vengono considerati fonte di spesa per la collettività. Tipicamente, vengono applicate ai carburanti perché producendo inquinamento, causerebbero spese inerenti la salute (in Italia, lo stato fa anche il dottore) ed altre collegabili (danneggiamento dei monumenti). Per questo, è un’imposta proporzionale alla quantità anziché al prezzo.
Dazi. Sono ancora imposte indirette, questa volta solo sull’acquisto di beni importati.
Contributi. In teoria sono accantonamenti obbligatori di una porzione dell’imponibile ai fini pensionistici, ovvero al percepimento del proprio sostentamento economico in età non lavorativa. In Italia invece sono assimilabili ad una imposta diretta, di cui solo una parte contribuisce ai fini pensionistici (ma non di chi li versa).
Pressione fiscale. È il rapporto tra GETTITO FISCALE e PIL, ed esprimerebbe la percentuale del fatturato (non del reddito!) delle persone fisiche e giuridiche che viene versato allo Stato. In Italia si aggirerebbe sul 45%. In realtà, il dato italiano è drogato in difetto dal fatto che nel PIL viene conteggiato una quota di PIL “sommerso”, che cioè sfugge all’imposizione fiscale diretta. Non tutti i paesi “drogano” il proprio conteggio del PIL con questo artificio, che l’ISTAT invece conteggia, in modo che alcuni ritengono opinabile, attorno al 17%. Rimuovendo questa “fetta” (di PIL che non pagherebbe le imposte quindi non soggetto al fisco), la pressione fiscale italiana balza al 54%.
SISTEMA TRIBUTARIO E FILOSOFIA POLITICA
La prima premessa filosofica di questo articolo è che la politica sia al servizio del cittadino. In altri termini, il cittadino pagherebbe l’amministrazione pubblica ai fini di ricevere da questa dei servizi. Si tratta cioè di un punto di vista contrattualista.
A chi invece credesse nel tributo come diritto di conquista, oppure di diritto divino, o di diritto d’élite, o al contrario chi ritenesse che un’amministrazione pubblica non debba neanche esistere né quindi lo dovrebbe alcuna forma di tributo, questa lettura risulterà inutile.
La seconda premessa è che il più importante articolo di questo contratto virtuale (o l’unico articolo, secondo il liberalismo classico) consisterebbe nella difesa dei diritti fondamentali dell’individuo. E tra questi, il più importante è il diritto dei cittadini all’incolumità, cioè alla sopravvivenza ed alla cura della propria salute.
ANALISI
Comprese le definizioni e le premesse ideologiche, gli errori grossolani del nostro sistema tributario risultano immediatamente ovvi. Per pura pedanteria, ne richiamiamo qui solo i più grossolani.
Imponibile. In questo paese baciato dalla follia, l’imponibile è di poco inferiore al reddito (cioè i ricavi meno i costi). Questo significa che chi ha un reddito che gli permette appena di sopravvivere, soggetto ad imposizione fiscale teoricamente morirebbe. Poiché poi il reddito è personale, e non tiene conto di tutti coloro che dipendono da quel reddito, morirebbero anche tutti questi ultimi.
Se invece il suo reddito gli permettesse di sopravvivere, ma a malapena di curare se stesso o gli altri che dipendono dal suo reddito, ancora lo Stato gli decurta il necessario (gli darebbe però indietro il 19% meno franchigia di quello che avesse già speso all’uopo) e lui non si potrebbe curare. E’ il caso qui di citare la scena di “Robin hood” in cui lo sgherro gabelliere dello sceriffo di Nottingham sottrae ad una madre il sacchettino di denaro che serviva a comprare la medicina alla sua bambina. Ecco, il nostro sistema fiscale è quello sgherro (solo, lascerebbe alla bambina il 19% meno franchigia).
Se invece il reddito gli permettesse appena di sopravvivere, di curarsi, e di pagare anche le tasse necessarie alla vita in comunità (tipo: quella dell’immondizia), ancora: lo Stato gli diminuisce il reddito, così lui (e gli altri che dipendono dal suo reddito) dovrebbe legalmente morire o ammalarsi.
Conclusione: un sistema fiscale in cui l’imponibile non è correttamente ridotto rispetto al reddito da deduzioni che tengono conto di sopravvivenza e salute, ed in cui le deduzioni sono sostituite da detrazioni in percentuali arbitrarie, non è civile. È contrario alle fondamenta della filosofia politica, o, più genericamente, dell’etica naturale. Può continuare ad esistere solo fondandosi sull’ignoranza della sua classe intellettuale e sul plagio dei suoi cittadini. Nonché sulla capacità dei più poveri di sottrarsi all’imposizione.
Tasse contro imposte. Le tasse dovrebbero corrispondere al costo preciso di un servizio pubblico fondamentale di cui il cittadino ha usufruito. Le imposte, non si sa. Va da se che le tasse sono preferibili, ove possibile, alle imposte. Ma, come già evidenziato, non per tutto ciò che concerne la difesa del diritto naturale.
Insomma, un altro cliché è smontato: per il liberale classico, le tasse sono “buone”. Sono le imposte che sono discutibili (lo stiamo per fare).
In realtà, il trucco c’è anche nelle tasse. Quando sono chiamate tali, ma in realtà parte di esse finisce nel gettito generale. E quando viene a mancare la sorveglianza sui costi reali del servizio. Tipicamente, le tasse riguardano servizi locali, che potrebbero essere messi facilmente a confronto per scoprire immediatamente le inefficienze (secondo ed ultimo pilastro del liberalismo classico: lo scetticismo, e le conseguenti misure di sorveglianza della funzione pubblica).
Imposte dirette contro imposte indirette.
La scelta tra queste va per esclusione. Delle indirette. Perché? Vediamole.
– IVA. L’imposta sul “valore aggiunto” traeva giustificazione dalla teoria del “plus valore”, secondo cui il citato valore aggiunto è un furto ed un sopruso. Non è necessario aggiungere altro su questa motivazione. Potrebbe però essere sostituita, come in altri paesi, dalla semplice “Imposta sugli acquisti” (quindi non dai fornitori e trasformatori ma solo dal cliente finale). Ma perché? Perché mai punire gli acquisti? Non si tratta solo di aumentare i prezzi artificialmente, ostacolare il diritto di acquisto al cittadino e di deprimere l’economia in generale. Si tratta anche di doppia imposizione. Perché l’acquisto viene effettuato tramite un reddito che è già stato soggetto ad imposizione diretta.
– Dazi. I dazi aumentano il costo di un prodotto straniero, ostacolando di fatto la libertà dei cittadini di acquistarlo. La giustificazione è quella di “difendere il prodotto italiano” da quello straniero più economico. Ma al contempo, si opprimono sia i cittadini che le aziende di trasformazione imponendogli costi maggiori. Il che significa che i cittadini avranno meno soldi per comprare altri prodotti, magari italiani, e le aziende italiane saranno ancora meno competitive perché soggette a costi più alti. In sintesi, impedire all’economia di approvvigionarsi a prezzi bassi significa SEMPRE ostacolarla e deprimerla. Il contrario di ciò che si voleva. Impedire di acquistare dall’estero a prezzi bassi è come impedire ad un paese di accettare un regalo. I dazi sono SEMPRE sbagliati.
L’altra giustificazione ovvero che il prodotto esteri sarebbe è stato fatto “sfruttando manodopera a basso costo” è ancora più folle. Impedirne l’acquisto significa far passare il basso stipendio a stipendio zero, e con zero speranza di aumentarlo. De hoc satis.
– Accise. Il principio sarebbe che se un prodotto causa dei danni alla società, l’acquirente li paga preventivamente. Per questo, è una imposta sulla quantità, non sul prezzo. I problemi sono però due. Il primo nasce se il danno è rivolto verso l’acquirente stesso. Tipico il caso delle sigarette. Ritengo il dubbio parzialmente futile, perché alcuni beni sono dannosi in modo occultato. In particolare, quelli che danno dipendenza. Si può scrivere finché si vuole sulle confezioni, ma i dipendenti spesso neanche credono di esserlo quando già lo sono. Che è comunque troppo tardi (Vivi in bilico, e fumi le tue Lucky Strike, e ti rendi conto, di quanto le maledirai…).
L’altra obiezione riguarda la quantificazione dell’accisa (cioè del rimborso del danno), che specie quando riguarda la salute, è sempre arbitraria. Quanto dev’essere l‘accisa sulla benzina? Mah… E dove deve finire il gettito relativo? Al rimborso ed alla prevenzione del danno, ovviamente. Ecco, trovando il modo di rispondere a queste domande in modo logico, la accisa diventerebbe un contributo filosoficamente accettabile. Ma quando la quantificazione serve ad alimentare un gettito generale (caso italiano), allora diventa priva di senso.
– Sugli immobili. Bisogna innanzitutto distinguere tre casi completamente differenti. Se l’immobile è l’abitazione, essa serve per sopravvivere, quindi sarebbe un sopruso gravarla di imposte. Se l’immobile è fonte di reddito, allora tale reddito (netto dalle spese) dovrebbe semplicemente rientrare nell’IRPEF o nell’IRES, considerando l’attività immobiliare come attività reddituale. Col particolare che se tale immobile fosse una proprietà fondiaria, sarebbe giustificata anche una imposta fondiaria, giustificata e valutata qui.
– Sulle rendite finanziarie. Sarà sempre ingiusta se non tiene conto anche delle perdite finanziarie, ovvero se non vengono trattate come reddito da attività professionale specifica.
Conclusione: restano quindi accettabili al fine del gettito per le spese generali solo l’imposta diretta, ovvero quella sulle persone fisiche (IRPEF) e giuridiche (IRPEG). Le accise potrebbero a certe condizioni (vedere sopra), così come le imposte fondiarie (vedere qui).
L’IRAP, che è un’ulteriore imposta regionale sulle persone giuridiche proporzionale al fatturato anziché al reddito, è ovviamente un sopruso su cui neanche ci soffermiamo.
Contributi pensionistici.
Dovrebbero servire ad assicurare la sopravvivenza in età avanzata, quando la salute non permette più attività produttive. Non un particolare livello di vita soggettivo. Solo la sopravvivenza. Chi volesse di più, potrebbe ricorrere alla pensione integrativa. Non dovrebbe essere compito dello Stato garantire una vita agiata, peraltro in modo differenziato tra i cittadini.
Quindi, contributi uguali per tutti? Non esattamente. Perché devono garantire la sopravvivenza per una certa vita residua (soggettiva), ed in base agli anni di contribuzione residui (soggettivi).
Inoltre, il loro valore attualizzato dovrebbe restare di proprietà del contribuente che lo ha versato. E devono effettivamente venire accumulati ed investiti per compensare inflazione (anche se non dovrebbe esserci) e costi di gestione.
Il sistema nazionale invece prevede che il gettito venga impiegato per mantenere altri pensionati, ovvero quelli attuali, ma anche per una moltitudine di altri scopi, quali assistenza sociale generica, case popolari, benefit ai soli dipendenti pubblici quali corsi, borse di studio e vacanze studio a loro ed ai figli ed altre nefandezze.
Tutto ciò, il contribuente italiano non lo sa. Tutto coperto da una cortina di omertà da parte della classe politica, a cui quella intellettuale è collusa.
CONCLUSIONI
L’imponibile. La coincidenza tra reddito ed imponibile è un sopruso enorme, così come il conseguente sistema basato sulle detrazioni (inevitabilmente arbitrarie) anziché sulle deduzioni.
Tributi compatibili con l’etica naturale e la logica contrattualista.
Sono solo:
– le tasse, qualora il loro gettito fosse limitato al rimborso del servizio pubblico, ed il cui importo fosse soggetto a sorveglianza e confronto.
– le imposte dirette, ma solo se riferite ad un imponibile ottenuto deducendo dal reddito tutte le spese per la sopravvivenza (quindi anche i contributi) e la cura di tutte le persone che dipendono dal reddito.
– le accise, ma solo se il loro gettito fosse effettivamente riservato al rimborso od alla prevenzione di un danno generato dal bene a cui è applicata.
– i contributi pensionistici, a patto che il montante (cioè il totale accumulato ed attualizzato, al netto dei costi di gestione. Con questi ultimi sorvegliati e confrontati con quelli del mercato privato) resti di proprietà del contribuente, e che il residuo venga restituito come eredità alla morte. E restituito straordinariamente quanto necessario in caso di necessità per malattia, uguale per tutti e limitato alle spese di sopravvivenza per vita residua (calcolata soggettivamente) ed applicati a reddito imponibile , cioè dedotte le spese di sopravvivenza, salute e tasse.
Tributi italiani eticamente corretti, ad oggi
Nessuno.
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NOTE A PIE’ DI PAGINA
[1] La forfettizzazione delle deduzioni è da aggiornarsi annualmente in base al costo della vita medio per componente familiare. Un esempio che funziona bene è come al solito quello svizzero. Da notare come l’utilizzo dei valori nazionali permetta una perequazione automatica, avvantaggiando le zone meno sviluppate economicamente, dove il costo della vita è storicamente inferiore.