Periodicamente viene proposto da qualche demagogo di ostacolare la “delocalizzazione” delle aziende.
La “delocalizzazione” è la decisione di una persona (fisica o giuridica, cioè individuo o società), di spostare la propria azienda in un diverso paese.
In pratica, a questa “persona” piace più un paese differente da quello in cui è nata (sia essa un individuo od una società).
L’idea è quella di impedirglielo. Di ostacolarlo. Insomma, un concetto simile al muro i Berlino, che serviva a rinchiudervi dentro le persone, anziché a difendere i confini come d’uso.
Chi propone questa idea, ovviamente propone un sopruso. Sia che voglia impedire l’espatrio ad un individuo, che ad una società. L’idea che la società non appartenga effettivamente ai suoi proprietari, bensì alla nazione, annulla il significato di proprietà privata. Annullamento su cui si fonda ogni totalitarismo di qualunque colore.
Quindi, dal punto di vista etico, i divieti alla delocalizzazione sono inaccettabili.
Ma c’è anche un’altra ragione per cui le disposizioni normative contro la delocalizzazione non sono auspicabili. Il fatto è che, se una persona se ne va dal paese in cui è nata, va incontro naturalmente a degli ostacoli enormi, sia emotivi che organizzativi. E se lo fa, una ragione c’è. Quale?
Ecco a cosa serve la delocalizzazione. Ad evidenziare quei problemi di una società che spingono le persone (fisiche o giuridiche) a fuggirsene. Alcuni la chiamano “democrazia coi piedi”, intendendo con “piedi” la libertà di spostarsi da un posto ad un altro.
In ogni caso, citando Adam Smith, una economia evoluta sarà sempre avvantaggiata rispetto ad un’altra più primitiva. Quindi, una delocalizzazione indica SEMPRE un problema GRAVE che sta ammalando una economia. Così grave da declassificarla dalla categoria “economia evoluta”.
Conclusione: chiudere i confini serve solo a nascondere un problema, condannando così l’economia di un paese in modo inesorabile. E, con essa, il benessere dei suoi cittadini.