A PROPOSITO DI EVASIONE FISCALE

Evasione

di Massimo Testa
Il discorso di fine anno della massima carica dello stato ha avuto come argomento principe la cosiddetta evasione fiscale.
Non è certo la prima volta che l’evasione fiscale viene indicata come una piaga del paese e che si sostenga sia uno dei freni alla crescita dell’economia.
Se lo stato recuperasse gli introiti relativi all’evasione, sostiene uno studio di Confindustria, si potrebbe arrivare a creare fino a 350.000 nuovi posti di lavoro.
Non sappiamo in base a quali astrusi calcoli si giunga a risultati del genere, né si vede come lo stato possa e debba creare nuovi posti di lavoro quando il suo apparato è fin troppo obeso e rappresenta un costo imponente.

Non è altresì credibile che ad un aumento dell’introito fiscale corrisponda un calo delle tasse: come è facilmente riscontrabile storicamente, al crescere degli importi riscossi dallo stato è SEMPRE corrisposto un aumento della spesa pubblica, e MAI un calo della pressione fiscale.
Prendendo comunque per buona l’entità dell’evasione fiscale (e anche in questo caso c’è da dire che, trattandosi di attività occulte, quella cifra rischia di essere solo una stima arbitraria, non si sa quanto vicina alla realtà), quello che per noi è evidente è che lo stato non può concretamente recuperare il mancato introito.
Per motivare questa nostra opinione abbiamo preso un dato che stima le voci e le relative percentuali che compongono l’evasione, riportato nella pagina postata qui e che fu pubblicata a suo tempo da diversi organi di informazione, fra cui il quotidiano Repubblica.
Vediamo come commentare questo dato:
– Il 43% attribuito alla criminalità e il 19% del lavoro nero NON SONO EVASIONE:
le cifre che riguardano le due voci non potranno mai emergere fiscalmente, perchè riguardano attività economiche che hanno luogo proprio perché non soggette al prelievo fiscale.
Così come un criminale non delinque per pagare le tasse, un lavoro in nero esiste solo perché non gravato da tasse e contributi: in caso contrario nessuno verrebbe assunto e nessuno farebbe quegli scambi.
Ergo: il 62% del totale della voce è INESIGIBILE
.
– Il 21% delle Big Company così come il 12% delle società di capitali vanno chiamati in altro modo, ovvero “elusione”.
L’elusione fiscale è la pratica di porre in essere un negozio giuridico, da parte di un contribuente, al solo fine di pagare meno tributi. A differenza dell’evasione fiscale, l’elusione viene ritenuta una pratica giuridicamente lecita.
L’elusione quindi avviene entro i termini di legge: così fa(ceva) Apple, così fanno i Dolce&Gabbana, infatti assolti quando portati in giudizio.
A questo si aggiunge che le società a responsabilità limitata, non avendo i mezzi economici per sostenere onerosi costi per consulenze legali e fiscali, vista l’aliquota fiscale che colpisce gli utili tendono a presentare bilanci con utili risicati o in pareggio.
Questo crea distorsioni non da poco nell’attività imprenditoriale: si è portati a fare spese e investimenti non strettamente necessari all’azienda per non vedersi sottrarre la maggior parte degli utili conseguiti.
Ergo: il 33% in questione è di diretta responsabilità del riscossore sia per le lacune di un groviglio di normative fiscali demenziali, sia per la sua bulimia assurda.
– Rimane il 5% di professionisti, autonomi e piccole imprese di persone (e già che ci siamo, di attività non dichiarate da parte di dipendenti pubblici e privati)
Stiamo parlando di una percentuale sul dato totale dell’evasione globalmente insignificante, ma allo Stesso tempo di operatori economici su cui vigono procedure di accertamento illegittime e canagliesche (redditometro, speso metro) e per le quali si è invertito l’onere della prova (non è lo stato a dovere dimostrare l’evasione ma il contrario, il che va contro qualsiasi idea di diritto); intrappolati in una selva assurda di norme e di gabelle a titolo vario, sia a livello nazionale che locale.
Concentrarsi quindi su queste attività per stigmatizzare i loro tentativi di continuare ad esistere è sbagliato, perché ha prodotto in questi anni una desertificazione economica diffusa, a maggior ragione in un paese con un apparato produttivo molto frazionato come il nostro.
A ben vedere, si possono rimettere allo stato tutte le accuse.
E’ lo stato che distorce la concorrenza; è lo stato che mina il tessuto economico; è lo stato che invece che rendere uguali rispetto alla legge crea favoritismi e legislazioni di favore per una categoria produttiva piuttosto che per un’altra; e, dulcis in fundo, è lo stato che non è tenuto ad osservare le sue stesse norme (si pensi all’ammontare delle sue pendenze rispetto ai suoi fornitori, ed è solo un esempio).
Ultima considerazione: confondere lo stato con il paese (con la patria, ha sostenuto qualcuno) è una posizione che se è lecito aspettarsi da chi lo stato rappresenta, non è comunque logicamente sostenibile.
Gli stati nascono, muoiono, cambiano; i paesi no.
Lo stato è un mezzo (a voi giudicare se efficace o meno), non un fine.
Questa visione sacrale dello stato, così diffusa fra molte persone, non ha alcuna ragione di esistere.

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