SCIACK! IL DITO NELL’OCCHIO AL CINEMA. “L’invasione degli ultracorpi” di Don Siegel (1956)

di Roberto BolzanLinvasione degli ultracorpi

Ci sono film sostenuti da un’idea così potente da non avere bisogno d’altro per diventare dei capolavori. Semplicemente lo sono già, fin dall’inizio. Per vocazione, si potrebbe dire. Per necessità.

Don Siegel racconta una storia che diventa subito una leggenda del cinema di fantascienza.

A Santa Mira, una piccola città della California, si verificano strani episodi. Alcuni abitanti dichiarano di non riconoscere i loro parenti più stretti e gli amici più intimi. Il dottor Miles esamina alcuni casi ma non riesce a spiegare la causa del fenomeno. Ma un corpo che esamina gli fa capire che qualcosa sta accadendo. Il corpo ha la fisionomia di un amico ma non ha rughe né impronte digitali.
Scopre che perfino Becky, la sua fidanzata, ed altri sono in procinto di essere sostituiti dalle copie. La sostituzione avviene durante il sonno, quando l’intero contenuto del cervello viene assorbito dalla copia, che viene quindi a possedere tutte le informazioni dell’originale, che a quel punto è inutile e scompare.
Miles, in preda al terrore, cerca di mettersi in contatto con le autorità della città più vicina per dare l’allarme, ma è un’impresa disperata perché scopre intorno a sé sempre più numerosi amici e conoscenti già trasformati in ultracorpi, che s’oppongono in tutti i modi alla sua iniziativa. Persino Becky subisce questo destino
Miles raggiunge la vicina città, non ancora contagiata, e viene creduto pazzo ma un incidente stradale offre la prova necessaria: un autocarro, che si è rovesciato sulla strada, risulta carico di strani, enormi baccelli. La scoperta decide le autorità a dichiarare lo stato di emergenza e l’umanità potrà reagire efficacemente alla terribile minaccia.

Il film (qui e qui) è breve, dura  circa un’ora, è privo di effetti speciali e visibilmente girato con risorse ridotte. La regia è semplice e diretta, essenziale, senza fronzoli, il ritmo è sostenuto e funzionale alla narrazione, senza inciampi. Sam Peckimpah alla sceneggiatura si nota. La fotografia è espressiva quanto basta nelle scene di interni, con le ombre proiettate che danno in giusto senso di paura.

Tutto si svolge rapidamente. Nella prima parte si accumulano gli indizi e si intuisce la verità, nella seconda parte se ne svela la dimensione apocalittica e si svolge la caccia all’uomo.
Don Siegel aveva inizialmente preparato una versione senza il lieto fine, che non prevedeva possibilità di salvezza per il genere umano, e proprio per questo priva della parte iniziale dove Miles, preso per pazzo, racconta la sua storia. Questo finale, voluto dalla produzione, è l’unica cosa che stona nel film, almeno a noi, palati allenati ed esigenti.

Letto in chiave anticomunista negli anni ’50, con gli alieni che condizionano le menti delle persone, precursore di una serie infinita di racconti di virus e di morti viventi, il tema di coloro che vivono fra noi è ancora più adatto oggi di allora. Peccato che non ci sia nessuno in grado di narrarlo contenta semplice efficacia.

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