di Andrea Babini
4) La Repubblica, il trionfo dell’ideologia velleitaria
Archiviata l’esperienza fascista con il tragico epilogo della sconfitta nella seconda guerra mondiale, nel 1948 la Costituzione Repubblicana, redatta da una Assemblea Costituente in cui la facevano da padrone le componenti, pressoché paritarie, cattolica e social comunista, sancisce all’articolo 32 “il diritto alla salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” e affida la materia sanitaria e ospedaliera alle costituende regioni in termini legislativi e amministrativi, anche se non in esclusiva. Queste scelte, perorate in particolare dalla sinistra dell’assemblea, saranno gravide di conseguenze nel lungo periodo, e a mio modo di vedere assai nefaste, per le casse dell’erario e gli equilibri del welfare italiano.
Per quasi tre decenni questi principi resteranno semplici dichiarazioni di intenti, senza trovare applicazioni pratiche. I governi De Gasperi e i successivi governi centristi scelsero una interpretazione centralista e continuista in materia di salute rispetto al dettato costituzionale.
La politica sanitaria e ospedaliera prosegue nel solco tracciato dal fascismo e dal concordato appena riconfermato, vengono costituite nuove mutue obbligatorie per le categorie che ne erano prive (artigiani, commercianti e coltivatori diretti), le sole differenze degne di nota sono il ritorno dei liberi ordini professionali per medici e farmacisti e la costituzione nel 1958 del Ministeri della Sanità, da parte del governo di Adone Zoli (monocolore DC con sostegno esterno del Movimento Sociale). La materia sanitaria non tornerà mai più sotto il controllo del ministro degli interni.
L’incapacità della classe politica di gestire le crescenti aspettative di “salute”, legate al progredire della società italiana, divenne sempre più evidente toccando un picco di incompetenza notevole con la riforma Mariotti del sistema ospedaliero del 1968. Mariotti era un socialista e l’esecutivo era il primo centrosinistra organico presieduto da Aldo Moro. Gli enti ospedalieri vennero sottratti alle IPAB (che avevano sostituito le IPB) e la loro direzione fu affidata alle Regioni. Peccato che le regioni non divennero operative prima del 1972 e ci vollero poi altri anni perché esse si dotassero di una loro normativa. Questo comportò un lungo periodo di vuoto di gestione e il continuo ricorso a decreti e interventi straordinari, temporanei e d’urgenza.
La sanità avrebbe dovuto continuare ad essere sostenuta dalle mutue che oramai coprivano il 90% della popolazione italiana, ma a fronte di contributi spesso modesti e insufficienti. Le mutue accumularono così ingenti debiti e diventarono insolventi nei confronti degli ospedali e dei fornitori. Il sistema finì inevitabilmente per entrare in crisi e il default delle mutue impose al governo di intervenire d’urgenza nella materia: la legge n. 386 del 17 agosto 1974 estinse i debiti accumulati dagli enti mutualistici nei confronti degli enti ospedalieri, ne sciolse anche però i consigli di amministrazione e ne dispose il commissariamento.
Si venne cosi a creare una sorta di situazione sospesa, di stallo era evidente la necessità di un intervento risolutivo. A compiere questo passo fu un governo Andreotti, un esecutivo di solidarietà nazionale frutto del compromesso storico tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista. Riprende slancio in questi anni l’assunto ideologico in materia di salute della carta costituzionale un pericolosissimo mix di demagogia velleitaria (il diritto alla salute per tutti) e di spartizione geografica dei centri di spesa e clientela tra i due principali partiti su base comunale (le regioni sono state istituite da poco e non sono ancora lo strumento di spartizione partitocratica dei fondi sanitari). Sono quelli gli anni della demagogia sguaiata, delle pensioni baby e dell’ideologia che pervade ogni ambito della vita pubblica. Gli anni in cui inizia a consumarsi il grande furto ai danni delle generazioni future perpetrato attraverso il debito pubblico.
La legge di cui parliamo entra in vigore il 23 dicembre 1978, è la 833 e istituisce il Servizio Sanitario Nazionale (SSN).
Il modello di riferimento non è più quello tedesco, ma quello inglese, teorizzato dall’economista William Beveridge nel 1942 e incarnato dal National Health Service, entrato in funzione già nel 1948 per volontà del governo del laburista Clement Attlee (e non a caso in pratica al collasso nella Gran Bretagna, sostanzialmente fallita, ereditata dalla Thatcher negli stessi anni in cui noi lo copiavamo).
Il SSN era basato sulla visione solidaristica nell’erogazione delle prestazioni, che erano estese di fatto e di diritto a tutti e non più limitate ai lavoratori iscritti alle mutue. Oltre al principio di universalità si affermava quello di uguaglianza, ovvero il diritto alle medesime prestazioni a parità di bisogno e il “principio di globalità” per cui non viene prese in considerazione la malattia, ma la persona. Questi principi comportano come logica conseguenza una implementazione dei servizi (e ovviamente delle occasioni di spesa).
Il SSN viene articolato non più in ospedali e mutue, ma in enti territoriali; si tratta delle Unità Sanitarie Locali o USL, create e gestite dai comuni, o singolarmente o in associazione a seconda della demografia.
Continua..
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3) Da Giolitti al Fascismo